La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 24 luglio 2016

Il No al referendum e le sofferenze di un democratico

di Marco Cucchini
Qualche giorno fa ho preso la parola nella Direzione Regionale del PD del Friuli Venezia Giulia – della quale, indegno come sono, faccio parte – per spiegare perché voterò NO al Referendum Costituzionale, andando contro la linea ufficiale del partito al quale convintamente appartengo. Non è stato per me un momento facile, questo è quello che ho detto: “Per la prima volta mi presento con un intervento scritto, ma quanto devo dire mi è fonte di particolare sofferenza, dato che – in oltre 20 anni di militanza – sempre forte è stato in me il richiamo all’unità del partito, alla lealtà verso le nostre scelte, così come la voglia di far prevalere le ragioni del sentirmi parte, dello stare insieme, anche quando l’istinto o la pulsione del momento avrebbero indotto scelte diverse.
Ci è chiesto impegno in vista del referendum d’autunno e io impegno lo sto garantendo, ma a malincuore a favore del NO e ne spiego in estrema sintesi le ragioni. Non mi soffermerò su aspetti di natura giuridica, per questi rimando al documento firmato – tra gli altri – da ben 11 ex presidenti di Corte Costituzionale. Preferisco in questi pochi minuti sottolineare le ragioni essenzialmente politiche, interne ed esterne al partito.
Innanzitutto, perché sento i valori della Costituzione come prevalenti sulle strategie di un partito o sul bisogno di sopravvivenza di una classe dirigente, ma soprattutto perché i contenuti di questa riforma non sono mai stati discussi con la cittadinanza o tra noi… Non erano previsti nel programma elettorale 2013 e neppure nella scarna mozione congressuale di Matteo Renzi. Una riforma uscita dal cilindro che avrebbe potuto comunque diventare patrimonio unitario se solo si fosse voluto sanare il gap di democraticità, partendo da noi e rafforzando la condivisione dei contenuti e dei fini attraverso il ricorso a forme di consultazione tra gli iscritti – come pure previsto dallo Statuto – ma non si è mai, neppure in minima parte, ritenuto di attenuare la verticalità dell’intero processo. Lo stesso vale per il contesto regionale. La Costituzione viene cambiata anche in parti che potrebbero alterare la nostra autonomia eppure neanche una volta in 2 anni, la Direzione o l’Assemblea sono state chiamate per esprimere un parere o dare una qualche indicazione ai nostri parlamentari.
E dunque, per quale altra ragione che non sia il mero spirito di fazione dovrei sentire “mia” una riforma della quale non condivido il percorso, lo spirito, le finalità e nella quale – come cittadino e iscritto al partito – non sono mai stato coinvolto in nessun momento?
Conosco perfettamente tutta la retorica del SI – o del SignorSI – sull’ineluttabilità della riforma, sul contesto, sui rischi della non approvazione e tutto il corollario allarmistico e strumentale messo in piedi – spesso con caotici taglia-incolla di citazioni di statisti morti, mancando la fantasia per crearne di nuove – ma non riesco a convincermi… Bisognava fare di più per ascoltare le voci del dissenso nella nostra comunità e per quanto possibile farsene carico. Molti di noi – io per primo – non chiedevano di meglio che un gancio, anche piccolo per dire SI e riconciliare coscienza e appartenenza. Non lo si è voluto fare, si è preferita l’ostentazione muscolare e ora se ne paghi il prezzo.
Ma sono contrario alla riforma anche per profonde ragioni politiche. Innanzi tutto, l’idea di democrazia. Se leggiamo il testo emerge infatti che:
(1) il Senato non sarà più eletto dai cittadini ma nominato dai partiti nei consigli regionali; (2) il monopolio dell’indirizzo politico apparterrà a una Camera eletta con legge fortemente distorsiva del rapporto voti espressi/seggi ottenuti; (3) le firme necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare vengono triplicate; (4) dal 7° scrutinio il presidente della Repubblica potrà essere eletto da una minoranza dei membri del Parlamento; (5) viene abolito il CNEL che – per quanto inadeguato – rappresentava il principio di un maggiore coinvolgimento dei corpi intermedi nelle scelte di carattere economico; (6) vengono abolite le Province, organo a legittimazione popolare diretta presenti nel nostro ordinamento dal 1848; (7) vengono ridotte le materie di competenza legislativa regionale in favore del centralismo statale; (8) le materie residue possono essere sottratte alle regioni su richiesta del governo e voto favorevole della Camera dei Deputati, senza neppure un parere dell’effimero Senato delle Regioni.
Nulla di questo, preso singolarmente, è totalmente errato. Ma lo è l’impianto complessivo, la lettura “ideologica” che emerge: ogni volta che ci si è trovati al bivio tra valorizzazione del pluralismo e della partecipazione da un lato e il rafforzamento del decisionismo verticistico dall’altro, si è scelta questa seconda strada. La visione politica che si cela dietro la riforma è claustrofobica. Si sostituisce un modello di democrazia certo più lento, più complicato, ma più plurale, legato alla partecipazione e alla vitalità dei corpi intermedi con un’altra idea, meramente elettorale, più scarna, poco esigente.
La sovranità continua ad appartenere al popolo, ma è esercitata una sola volta ogni cinque anni per eleggere un Capo. E’ la resa culturale e politica a una idea di società tutta verticista, a un tempo pigra e elitaria. Si finge di essere moderni, ma è solo un ritorno alle prassi del liberalismo censitario dell’800.
La seconda ragione politica del mio NO nasce dalla consapevolezza che le Costituzioni non sono solo testi giuridici, ma “patti politici” tra diversi e solo se altamente consensuali sono pienamente vitali sul lungo periodo. Da almeno 15 anni – invece – ogni maggioranza politica ha imposto la propria idea di Costituzione. Nel 2001 fu il Centrosinistra a approvare con ristretto margine la riforma del Titolo V che oggi si vuole smontare. Nel 2006 fu il Centrodestra e grazie alla saggezza del popolo italiano quella riforma fu bocciata. Oggi siamo noi, che presentiamo agli elettori non un testo nobile e condiviso, ma un pasticcio approvato a furia di trucchi procedurali, risse e ricatti, in un clima in cui tutti – governo e opposizione – hanno dato il peggio di sé.
Il testo che si vuole approvare non sarà vitale perché non è condiviso. E spero che il referendum fallisca perché con esso – forse – fallirà definitivamente l’idea che la Costituzione sia solo una delle tante leggi a disposizione del leaderino di turno. Così come la scuola e l’università, stravolte a ogni giro di valzer ministeriale; le norme sul lavoro, cambiate da cima a fondo almeno 4 volte in 20 anni; il sistema pensionistico, costantemente sotto stress dai tempi del governo Dini… Un continuo riformismo nevrotico, senza implementazione, valutazione, stabilità, continuità.
E risparmiamo la cantilena de “la I Parte non è toccata”. Sarà toccata domani, quando chi governerà saprà di non essere più il Custode, ma un padrone e la Costituzione avrà perso ogni parvenza di sacralità. E quindi, davvero al Paese serve una Costituzione – per citare il presidente Scalfaro – “costantemente tenuta in bilico sul cestino della carta straccia”?
Chiudo sottolineando come la mia contrarietà nasca anche da questioni interne alla nostra comunità. Dietro la riforma c’è infatti – rivendicata varie volte – la volontà di far nascere un nuovo partito, più in linea con il pensiero dominante. Un partito privo di legami non solo ideologici, ma ideali con le grandi tradizioni culturali e politiche novecentesche che hanno dato vita al PD. Un partito di Vassalli, Valvassori e Valvassini.
In quel partito non può esserci spazio per gli spiriti liberi come me. E – per quanto io non sia particolarmente intelligente – lo sono abbastanza da non giocare a fare il capretto (o il caprone) che bussa alla porta del cuoco per ricordargli che Pasqua sta arrivando…”

Fonte: Libertà e Giustizia 

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