di Fabrizio Tonello
A tre mesi e mezzo dalle elezioni, i numeri dei sondaggi politici in America valgono all’incirca quanto le previsioni del governo italiano sull’occupazione giovanile, o uno yogurt dimenticato nel frigorifero da Natale. Ci sono, però, dei numeri che negli Stati uniti non mentono mai: sono quelli dei voti nel collegio elettorale che decide il presidente (al contrario di quanto si ostinano a farci credere giornali e televisione, non è il popolo a eleggere direttamente chi andrà alla Casa Bianca ma i delegati scelti stato per stato).
Questo significa che un candidato può vincere le elezioni anche raccogliendo meno voti del suo avversario, a condizione che ne ottenga di più in alcuni stati decisivi, come del resto accadde pochi anni fa a George W. Bush, eletto presidente pur avendo ottenuto su scala nazionale mezzo miloni di voti in meno di Al Gore.
Questo significa che un candidato può vincere le elezioni anche raccogliendo meno voti del suo avversario, a condizione che ne ottenga di più in alcuni stati decisivi, come del resto accadde pochi anni fa a George W. Bush, eletto presidente pur avendo ottenuto su scala nazionale mezzo miloni di voti in meno di Al Gore.
Cosa ci dicono i numeri che contano? Ci dicono che il candidato repubblicano, chiunque egli sia, parte da circa 206 voti elettorali abbastanza sicuri su 538: quelli che Mitt Romney ottenne nel 2012. Pochi: la maggioranza necessaria è 270 voti. Quindi la domanda a cui rispondere è: «Trump ha la possibilità di trovare i 64 voti che gli mancano?».
La risposta è che esistono due sentieri, stretti ma percorribili, che potrebbero portarlo alla vittoria, benché oggi Hillary Clinton rimanga favorita.
Il primo sentiero è quello dei grandi stati dove l’esito è sempre molto incerto: Florida e Ohio. Nelle ultime dieci elezioni presidenziali, la Florida ha dato la maggioranza cinque volte ai repubblicani, quattro ai democratici e una volta non si sa troppo bene a chi (nel 2000 la Corte Suprema decise che non bisognava ricontare i voti e assegnò lo stato a Bush figlio). Il candidato repubblicano di turno ottenne da un massimo del 65,3% nel 1984 con Reagan a un minimo del 40,9% nel 1992 con Bush padre, uno spostamento gigantesco di suffragi nell’arco di soli otto anni. La Florida è quindi il più tipico degli stati in bilico, i cosiddetti swing states: Trump ha assolutamente bisogno dei suoi 29 voti elettorali e oggi sembra avere il 50% di possibilità di farcela.
L’Ohio, nelle ultime dieci elezioni presidenziali, ha votato cinque volte per i democratici e cinque per i repubblicani, spesso con lo scarto di pochi voti: nel 1976 vinse il democratico Jimmy Carter contro Gerald Ford, per appena 11.000 voti su oltre 4 milioni. Il candidato repubblicano più convincente risultò Ronald Reagan nel 1984, con il 58,9% dei voti, quello meno convincente di nuovo Bush padre, con il 38,3% nel 1992, una perdita di venti punti percentuali nel giro di otto anni. I democratici hanno vinto sia nel 2008 che nel 2012 ma i repubblicani hanno una base di consensi molto solida: se alle ultime elezioni 85.000 elettori di Obama avessero invece scelto Romney, lo Stato sarebbe andato ai repubblicani con i suoi 18 voti nel collegio elettorale.
Questi due stati sono quelli Must-Win, quelli decisivi per Trump. Prevalere, anche per un pugno di schede, in Florida e Ohio, porterebbe in teoria il candidato repubblicano a quota 253 voti elettorali, in vista del difficile traguardo dei 270 voti, il numero magico che apre le porte della Casa Bianca. La chiave per raggiungere la meta sta in uno stato a maggioranza bianco, colpito dalla deindustrializzazione e con vaste aree rurali che votano repubblicano da tempo: la Pennsylvania. Con i suoi 20 voti elettorali, la Pennsylvania porterebbe Trump a quota 273.
Si tratta però di una conquista tutt’altro che facile: nello Stato dove nel 1787 fu scritta la Costituzione nel 2012 Barack Obama ha distanziato Romney di oltre cinque punti percentuali. È vero che nella parte centrale della Pennsylvania i repubblicani raccolgono anche il 70% dei consensi, ma questo finora non è bastato a riequlibrare il voto democratico di Filadelfia, dove Obama ha ottenuto l’85% dei suffragi, e di Pittsburgh, dove ha raccolto il 56%. Una forte mobilitazione degli elettori maschi bianchi che sostengono Trump potrebbe creare la sorpresa.
Se la Pennsylvania sfugge a Trump, il percorso alternativo verso la vittoria si fa accidentato e richiede la vittoria in tre stati più piccoli: Colorado, Iowa e New Hampshire. Sono tre stati il cui peso complessivo nel collegio elettorale è di 19 voti, che uniti ai 253 di cui dicevamo, catapulterebbero il candidato repubblicano a quota 272. Anche in questo caso si tratta di una possibilità, ma molto incerta: il Colorado, che aveva votato repubblicano per decenni, ha oggi una composizione demografica più favorevole ai democratici, che hanno vinto senza difficoltà sia nel 2008 che nel 2012. L’Iowa è nettamente diviso in due: la parte orientale vota democratico, quella occidentale repubblicano, ma una maggioranza conservatrice a livello dello Stato non si è più trovata dopo il 1984.
Questi sono i calcoli che gli staff di Clinton e Trump stanno facendo in queste ore ma non bisogna dimenticare che le uniche vere possibilità di successo per il miliardario di New York stanno in un senso di crisi e di profondo disorientamento degli elettori. Solo se la richiesta dell’Uomo Forte diventasse generale Trump avrebbe reali possibilità. Il problema è che nulla può escludere che gli Stati Uniti vivano in ottobre-novembre una settimana di attentati come quella che ha vissuto l’Europa negli ultimi otto giorni. Una serie di attacchi sul territorio americano come Nizza, Wurzburg e Monaco di Baviera potrebbe cambiare la dinamica della campagna elettorale anche nelle ultime ore prima del voto dell’8 novembre.
Fonte: Il manifesto
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