di Leonardo Paggi
Per un quarto di secolo la sinistra perbene, quella sedicente riformista, benpensante, e socialmente garantita, che si era impegnata a costruire un paradiso in terra sulle ceneri del comunismo ha ripetuto a se stessa e a noi tutti, popolo degli elettori progressisti, che il segreto di una vera e vincente strategia politica stava nella conquista del centro. Le elezioni americane mettono una pietra tombale su questa presunzione, se ce n’era ancora bisogno, e suonano come un campanello d’allarme per tutti coloro che non sono convinti che senza una sinistra forte e caratterizzata sia la stessa stabilità della democrazia ad essere messa seriamente in causa.
In Usa Obama passa la mano direttamente a Trump. Ma è davvero così strano e inaudito? A pensarci c’è una logica forte. Per otto anni il presidente nero non ha fatto altro che cumulare sconfitte alternate da piccole insignificanti vittorie. La parola d’ordine con cui era riuscito a farsi eleggere (Yes we can) non poteva conoscere una smentita più clamorosa. Sia in politica interna che in politica estera l’impotenza e l’incoerenza è stato il tratto distintivo di questa presidenza. Ed è proprio la completa disillusione delle grandi attese di cambiamento riposte per otto anni nel presidente democratico che in definitiva ha aperto la strada alla destra. Ad essere sconfitto è stato il tentativo tardivo e un po’ ingenuo di riproporre il tradizionale messaggio progressista americano in un’epoca in cui erano venute meno le condizioni storiche della sua attuazione.
La politologia americana, nella figura assai rappresentativa del democratico Arthur Schlesinger (stretto collaboratore di J.F. Kennedy), ebbe ottimi motivi per teorizzare una politica di “vital center” negli anni in cui un possente sviluppo economico allargava ininterrottamente i confini della classe media i cui requisiti di base si era soliti individuare nella proprietà di una confortevole abitazione nei sobborghi in perpetua espansione e nella possibilità di mandare i figli a studiare in una buona università. Il sogno americano in definitiva non aveva niente di sognante: si lasciva misurare su assai tangibili risultati economici. La politica di inclusione del centro vitale trovò precisi corrispettivi in Europa. In Italia significò un ininterrotto monopolio del governo della Democrazia cristiana, partito congenitamente interclassista, e in Europa, in assenza della conventio ad excludendum, un progressivo avvicinamento politico – programmatico dei partiti conservatori e progressisti.
Quantum mutatus ab illo! Obama ha avuto la piccola vittoria di mettere in sicurezza l’industria automobilistica, ma ha perso platealmente la guerra contro la crescente polarizzazione sociale che mina da anni la stabilità della democrazia americana. Oggi è chiaro quello che già prima si poteva intuire, ossia che solo un candidato democratico come Bernie Sanders poteva avere qualche opportunità di arrestare la landslide di Trump. Ed ancor più chiaro è il fatto che la Clinton, invece di accontentarsi dell’endorsement di Sanders, avrebbe dovuto riprendere ed enfatizzare l’agenda iniziale di Obama che l’opposizione repubblicana, maggioranza nei due rami del parlamento, era riuscita a mandare a picco. Troppo per quella sua storia personale tutta calata nelle mitologie ormai stantie degli anni Novanta, quando sia in Europa che in Usa si pensò davvero (ingenuità o scelleratezza?) che la tradizionale politica di progresso, affermatasi in tutto l’occidente capitalistico dopo la seconda guerra mondiale, ed in presenza di una ruggente Unione sovietica, fosse conciliabile con una espansione illimitata del potere della finanza.
Se si ha il coraggio di andare oltre le emozioni di superficie di una campagna elettorale, che forse troppo superficialmente si è detto essersi basata sul nulla, ci si accorge che in realtà Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane. Una politica estera di intesa con la Russia per porre fine alla tragedia del Medio Oriente in cui gli Stati uniti stanno perdendo ogni reputazione dal 2001, allorché, frastornati dall’idea di aver vinto la guerra fredda, imboccarono la impossibile strada della ricostituzione dell’impero. E una politica di sviluppo fondata prioritariamente su grandi investimenti pubblici nelle infrastrutture (di cui Trump ha riparlato nel discorso della vittoria), sulla difesa della precedenza del lavoratore americano rispetto a quello straniero, sul ritorno anche, là dove sia necessario, a forme di protezione della manifattura nazionale contro la logica del Trattato Transatlantico difeso accanitamente in Europa dai pasdaran della politica di austerità, in primis dal ministro dello sviluppo economico del governo in carica nel nostro paese.
Piaccia o no occorre prendere atto che da queste elezioni esce battuto quel mix di liberismo e bellicismo di cui la Clinton è apparsa rappresentante diretta. Siamo dinanzi al paradosso di una politica di destra che viene sconfitta da una destra che ha avuto il coraggio e la creatività politica di farsi interprete di un disagio sociale ormai dilagante e che da tempo cerca disperatamente una voce che lo rappresenti. Gli ingredienti sono molto simili a quelli che hanno determinato la Brexit (che pure è totalmente specioso rappresentare come una vittoria della destra) e che nei paesi più benestanti del continente stanno invece gonfiando le vele del populismo neofascista.
Le elezioni americane ci aiutano allora a capire l’estrema fragilità democratica di un’Europa sintonizzata da anni sulla politica di austerità. Nella sconfitta della Clinton è facile leggere anche tutta la debolezza di Renzi che crede di stabilizzare il proprio potere con la distribuzione dei bonus; che continua a pensare si possa avere crescita e occupazione regalando soldi alle imprese (secondo un vecchio pregiudizio degli anni Novanta) senza aver capito che nessun imprenditore che si rispetti, grande o piccolo che sia, è disposto a fare investimenti se non ha le certezza di vendere le sue merci; che crede di contestare la politica di austerità prendendosela con Junker, il funzionario di turno, senza chiamare in causa il sistema di Maastricht, da un quarto di secolo governato con mano ferrea dagli interessi tedeschi. Ossia dal vero Stato che consente l’esistenza della “moneta senza Stato”.
La coscienza e la cultura di sinistra che ancora esiste nel nostro paese, aldilà delle vecchie sigle del passato, ha dunque qualcosa da imparare dalla vittoria di Trump. Ma come? Ad esempio smettendo di bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione. Facendosi interprete sul terreno nazionale e persino su quello locale di tutti gli interessi lesi dalla globalizzazione, come unico modo per risuscitare la politica democratica cancellata dal sedicente governo impersonale delle regole. Andando a censire gli enormi danni provocati dalle tre libertà di Maastricht, quelle dei capitali, delle merci, e della forza lavoro, per ricostruire nelle condizioni di oggi un concreto programma di quella che negli anni Trenta Karl Polanyi chiamava “autodifesa della società dal mercato”.
Fonte: Micromega online
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