di Ida Dominijanni
Sessanta milioni di elettori ed elettrici hanno deciso di “rifare grande l’America”, make America great again, affidando il compito a Donald Trump, “il presidente più impreparato della nostra storia” come lo definisce stamani un New York Times sconfitto, assieme a tutto il sistema dei media e dei sondaggi e al cosiddetto establishment, quanto e più di Hillary Clinton. Lo slogan, ora si vede, era ben congegnato. Puntava dritto al tallone d’Achille della presidenza Obama, che lascia un paese in crescita malgrado la crisi più devastante degli ultimi novant’anni, l’occupazione in netta risalita, il salario minimo in crescita, un minimo di copertura sanitaria garantito per la prima volta nella sua storia, il nemico terrorista colpito se non affondato, la considerazione internazionale ripristinata dopo il buio dell’era Bush.
Ma ha avuto l’imperdonabile ardire di abbandonare la retorica del paese più potente del mondo, padrone e gendarme del mondo, per metterlo, fin dall’inizio, di fronte all’ineludibile dato di realtà della perdita di potenza sovrana che il mondo globale e interconnesso comporta per chiunque lo abiti. Nessuno, a Obama, l’ha mai perdonato, fuori ma nemmeno dentro il suo partito. Make America great again era evidentemente la pulsione repressa che covava nell’inconscio americano: il “fantasma fondamentale”, direbbe qualcuno, di una lesione non rimarginabile di potere e primazia, che agiva sotto la pelle di un paese che pareva avercela fatta a tirarsi fuori dalla crisi geopolitica prima, economica e sociale poi, che l’aveva colpito dal 2001.
Ma ha avuto l’imperdonabile ardire di abbandonare la retorica del paese più potente del mondo, padrone e gendarme del mondo, per metterlo, fin dall’inizio, di fronte all’ineludibile dato di realtà della perdita di potenza sovrana che il mondo globale e interconnesso comporta per chiunque lo abiti. Nessuno, a Obama, l’ha mai perdonato, fuori ma nemmeno dentro il suo partito. Make America great again era evidentemente la pulsione repressa che covava nell’inconscio americano: il “fantasma fondamentale”, direbbe qualcuno, di una lesione non rimarginabile di potere e primazia, che agiva sotto la pelle di un paese che pareva avercela fatta a tirarsi fuori dalla crisi geopolitica prima, economica e sociale poi, che l’aveva colpito dal 2001.
La politica, bisogna metterselo in testa, ha a che fare con i fantasmi. Lo sapeva bene Shakespeare all’inizio della modernità, ce lo dimentichiamo noi alla fine, ora che il mondo è assai più fuor di sesto, out of joint, di allora, e la politica ha divorziato dalla razionalità in cui la modernità l’aveva imbrigliata. Basta guardare all’esterrefazione con cui i commentatori del New York Times, Paul Krugman in testa, realizzano improvvisamente che il loro paese non si identifica più con la norma, e la normatività, liberaldemocratica, ma con un leader che programmaticamente le sfida. Eppure dovremmo averlo ormai capito che può accadere – accade sempre più spesso, e in Italia è accaduto prima che altrove – che un popolo si identifichi con un leader farlocco, truccato di finta onnipotenza, rivestito di soldi, armato di incitazioni alla trasgressione e di promesse di godimento, adornato di virilismo revanscista. Sono le identificazioni dei deprivati, degli impauriti, dei depressi. Di popoli disfatti e passivizzati, che proiettano su questi personaggi un bisogno di voce sistematicamente sospinto nell’irrilevanza dagli establishment neoliberali preoccupati solo della propria “stabilità”.
Sono fantasmi che contano, ghosts that matter, e che hanno evidentemente contato nell’elezione di Trump più di tutte le conte, e i conti, sull’incrocio fra razze, classi, generi, generazioni e quant’altro, in cui la sociologia e i sondaggi americani sono maestri e su cui stavolta hanno clamorosamente fallito. L’analisi dei flussi dirà nei prossimi giorni cose più precise, ma l’amara verità, a un primo sguardo, è che Trump ha vinto anche dov’era meno prevedibile. Ora si fa presto a scoprire che l’America della middle class bianca, precarizzata dalla crisi e dalla globalizzazione, s’è presa la sua rivincita, e che la mappa della vittoria di Trump coincide con la mappa della crisi economica e sociale. Ma fino a ieri era difficile afferrare non che questa dinamica fosse in atto, ma che fosse così eclatantemente maggioritaria, e così conquistabile dal suprematismo razzista e isolazionista di Trump. Non vale nulla, ma a me per esempio, che ho vissuto negli Stati Uniti per un anno prima che la campagna elettorale cominciasse, pareva una dinamica in atto ma minoritaria, in un paese che pareva a sua volta avere imboccato una via di uscita dalla crisi ben più solida e affidabile del pantano e della depressione europee. All’epoca, giugno 2015, chiunque, a sinistra e a destra e al centro, scommetteva con assoluta certezza che Hillary Clinton fosse già con tutti e due i piedi dentro la Casa Bianca.
Che cosa è successo da allora in poi? Per quanto tutte le reazioni, oggi, parlino di una sorta di “evidenza” della ragione sociale del voto, credo che bisognerebbe analizzare con più coraggio la dinamica politica, imprevista e sorprendente, di questa corsa presidenziale. Dove la protesta sociale, prima o insieme con il volto di Donald Trump, aveva preso, anche in quel caso inaspettatamente, il volto di Bernie Sanders. Un volto socialista, inaudito in un paese in cui l’aggettivo “socialista” era da sempre fuori corso, che incanalava nel verso giusto quasi un decennio di mobilitazioni antiliberiste e antiestablishment, oltre ad annunciare da sinistra la storica rottura del consenso della guerra fredda che Trump agita da destra.
È vero, Sanders ha perso le primarie, e non poteva neanche vincerle. Ma il partito democratico avrebbe dovuto in qualche modo cogliere il segnale, e cambiare strategia, narrativa e candidato. Da predestinata, Hillary era diventata improvvisamente una candidata fuori tempo massimo: perfino nel suo massimo atout, il mantra della “prima donna alla Casa Bianca”, in una società che sul versante progressista è ormai compiutamente post-gender, salvo rispolverare i ruoli sessuali sul versante tradizionalista. Si è voluto insistere su di lei – con in più l’errore fatale e francamente non necessario, da parte di Obama, di legare così strettamente alla sua elezione la propria eredità –, e la sua inevitabile associazione con le dinastie, l’establishment, le guerre, i finanziamenti sospetti, le bugie pubbliche e private (comprese quelle risalenti al sexgate), i legami con le banche, tutte cose che le società occidentali disfatte dalla crisi non sopportano più, ha avuto la meglio sulle sue virtù decantate di competenza ed esperienza.
Qualcuno notava, ieri notte, che oggi è l’anniversario del crollo del muro di Berlino. La storia cambia passo a Washington, altri muri si alzano, la guerra fredda è davvero sepolta ma il mondo ricomincia a tremare.
Fonte: Internazionale
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