di Francesco Bertolini
Esistono persone capaci già in vita di entrare dalla porta principale nell’immaginario collettivo dell’eroe positivo e di indicare la strada verso quel futuro di progresso che oggi suona novecentesco e consolatorio ma in fondo – ammettiamolo – tutti vorremmo possibile. Nonostante anagraficamente la vita di Umberto Veronesi abbia attraversato soprattutto il secolo scorso, la sua appare oggi come una delle prime figure capaci di costruire un ponte culturale e scientifico verso il post-duemila, quel futuro globalizzato e tecnologizzato ma drammaticamente a corto di figure positive.
Nel giorno buio dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, la perdita di Umberto Veronesi potrebbe gettare una ulteriore e profonda tristezza. Conoscendolo, sono invece sicuro che avrebbe condiviso il pensiero di Barack Obama (incidentalmente, un altro importante candidato alla figura di eroe collettivo). Avrebbe dichiarato anche lui alla stampa «qualunque cosa succeda, domani sorgerà di nuovo il sole». Avrebbe aggiunto, però, «e lotteremo contro l’ignoranza e la rassegnazione».
La parabola di Veronesi inizia e finisce tra le cascine agricole che circondano Milano. Nasce in una di queste nel 1925 crescendo ribelle e in lotta perenne contro i professori di una scuola alla quale guarderà sempre con un certo scetticismo, una fabbrica più interessata a produrre pezzi in serie che a cercare e valorizzare i talenti. Non ha ancora vent’anni quando mette accidentalmente il piede su una mina. Si ferisce gravemente, ma per capriccio del destino si salva. Lo descriverà come il momento della svolta: diventa un irrefrenabile appassionato della vita.
Nel dopoguerra italiano pervaso da ottimismo e voglia di ricostruzione poche sono le attività professionali ancora considerate come inevitabilmente destinate alla sconfitta. Tra queste reiette, la cura dei tumori. Proprio perché brillante e ambizioso al giovane dottor Veronesi ogni maestro e cattedratico sconsiglia di perder tempo con la cura delle malattie incurabili.
Oggi nella ricerca scientifica internazionale si parla molto di massa critica, investimenti tecnologici, cross-fertilizzazione di talenti. Nella Milano a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta l’incontro incidentale di alcuni visionari (Umberto Veronesi, Gianni Bonadonna, Beppe della Porta e altri ancora) trasforma l’istituto Nazionale Tumori di via Venezian da cupo ospedale degli incurabili ad una delle istituzioni più importanti dell’oncologia mondiale. Nello scetticismo generale – nazionale ed internazionale – Veronesi ha l’intuizione di voltare pagina, passando dal chirurgo-demiurgo che sconfigge il cancro, asportando quanto più tessuto possibile, al chirurgo – scienziato che asporta il meno possibile e disegna studi clinici per arrivare a definire quale sia la bilancia corretta tra la massima efficacia e la minima tossicità.
Via Venezian diventa un nuova via Panisperna (la culla negli anni ’30 della scienza italiana di Fermi, Amaldi e Segrè) anche e soprattutto perché sin da subito sceglie di dialogare con i migliori cervelli e le migliori istituzioni internazionali invece che dedicarsi al piccolo cortile italiano. Veronesi e Bonadonna impiegheranno più di un decennio a convincere americani, asiatici e europei della validità dei loro protocolli terapeutici, ma le loro intuizioni sono ancora oggi alla base delle terapie oncologiche di tutto il mondo.
Nasce in questo contesto anche una delle posizioni più anticonformiste di Veronesi: la scienza non può avere confini e bandiere. Quando all’inizio degli anni ’90 la crisi economica innesca l’esodo dei cervelli italiani verso strutture estere che credono e investono maggiormente alla ricerca, Veronesi scandalizza dichiarando che a suo modo di vedere l’argomento è patetico, le menti migliori vanno per definizione dove hanno migliori possibilità di esprimersi.
Arriviamo al secondo crocevia del Veronesi clinico. A metà anni ’90 per il Ssn ha raggiunto l’età della pensione forzata. Per Veronesi è l’opportunità di realizzare quello che ancora non c’è e dovrebbe invece esserci. Convince banchieri e imprenditori a partecipare ad un’iniziativa che sembrava allora assolutamente fuori scala: realizzare a Milano un centro oncologico capace di attrarre talenti da tutto il mondo grazie a un progetto ambiziosissimo di coesistenza e progettualità tra clinici, epidemiologi e ricercatori di base provenienti da tutto il mondo. Nasce l’Istituto Europeo di Oncologia, e Veronesi convince a farne parte diversi tra gli esperti italiani e internazionali più brillanti del momento. Per citarne alcuni, arriva dalla Svizzera il clinico Aron Goldhirsch, da Lione l’epidemiologo Peter Boyle, Pier Giuseppe Pelicci chiama group leaders di diversi continenti a realizzare un dipartimento di oncologia sperimentale tra i migliori al mondo, Roberto Orecchia insieme a Veronesi trasporta la radioterapia fino alla sala operatoria cambiandone i paradigmi di utilizzazione.
Veronesi impone una struttura architettonica di rottura con la tradizione italiana dell’ospedale diviso in padiglioni, camerate, feudi e baronie. Il ragazzo di campagna è felice di tornare tra le cascine, ma l’Ieo deve avere soprattutto stanze di degenza con uno o due letti e – sottolinea in ogni riunione Veronesi – far sentire i pazienti il più possibile accolti e ascoltati. Il modello Ieo non è scevro da problemi, soprattutto di sostenibilità economica negli anni in cui i costi delle nuove tecnologie e dei nuovi farmaci esplodono senza che gli organismi regolatori riescano a porre un freno adeguato, ma ha il merito di indicare che anche in Italia puntare verso il meglio è possibile e di spingere le strutture del sistema sanitario nazionale ad investire verso ospedali più accoglienti e più attenti all’ascolto delle necessità dei pazienti.
Realizzato questo modello, Veronesi può usare la sua esposizione mediatica e la sua credibilità di clinico e ricercatore per diventare tra la fine degli anni ’90 e gli anni zero l’eroe positivo della scienza che all’Italia cattolica è fino ad ora sempre mancato. Promuove battaglie pubbliche per la liberalizzazione delle droghe, contro ergastolo e pena di morte, per l’autodeterminazione nel fine vita, per il riconoscimento delle unioni omosessuali, identifica nel consumo della carne una delle grandi cause dell’inquinamento e della distruzione dell’ambiente, promuove tramite «Science for Peace» la causa della scienza come strumento indispensabile su base planetaria al raggiungimento di pace, autodeterminazione e benessere. A queste cause coraggiose ma ampiamente condivisibili tra il popolo della sinistra alla quale sceglie di appartenere sa associare anche battaglie difficili e percepite come controverse, che testimoniano la sua indipendenza di pensiero.
Si schiera a favore dell’energia nucleare, che ritiene possa essere prodotta in condizioni di sicurezza, non partecipa alle crociate contro gli inceneritori di rifiuti che a suo modo di vedere possono essere realizzati minimizzando l’inquinamento ambientale, infine difende la coltivazione di organismi geneticamente modificati sostenendo che l’umanità di fatto ne fa uso da secoli e che sono alla base della ricerca del benessere per le future generazioni.
Nell’autobiografia scritta in questi ultimi anni, andando oltre lo «stay foolish» di Steve Jobs, Veronesi scrive «..Siate dubbiosi e siate trasgressivi, se trasgredire significa andare oltre limite del dogma o la rigidità della regola. Senza dubbio e trasgressione non avrei visto (e contribuito a provocare) i progressi nella lotta al cancro, l’evoluzione del ruolo delle donne, l’affermazione della libertà di amare, avere figli e vivere la propria sessualità, il tramonto del razzismo, la nascita del senso di sostenibilità ambientale e il rispetto per l’armonia del pianeta e per tutti gli esseri viventi. La vita forse non ha alcun senso. Ma proprio per questo passiamo la vita a cercarne uno. L’importante non è sapere, ma cercare. Sconfiggere l’ignoranza sia il vostro impegno primario, perché l’ignoranza non ci dà alcun diritto. Continuate a cercare fino alla fine, con la consapevolezza che non potete fare a meno del bene e della vita».
Come avrei scritto di un giovane alpinista che ci lascia facendo quel che più amava, mi viene da dire «forever young, Umberto».
Fonte: Il manifesto
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