di Luciana Castellina
Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto. Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe stato «ahimé – il nostro presidente».
Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale. L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.
Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale. L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.
Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani. L’establishment – democratico ma anche repubblicano – è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.
È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).
Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro.
Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da «carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio». Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto.
Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.
Fonte: Il manifesto
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