di Roberto Finelli
1. Oltre il blocco heideggeriano
Antropologia e politica appaiono indistricabimente connesse. La loro connessione è la medesima che dire: individuazione e socializzazione fanno tutt’uno. Nel senso che ormai non si può più tornare indietro dalla coscienza definitivamente acquisita della loro congiunta valorizzazione, come due faccie della medesima questione. La politica quale esercizio del potere, quale tecnica della governamentalità, in questa sede non credo possa interessarci.
Non può interessarci cioè, in quanto sterile di futuro, la concezione che già Trasimaco esponeva della politica, nel I° libro della Repubblica platonica, come l’utile del più forte, o nel significato contemporaneo di governance, quale tecnica istituzionale di mediazione tra interessi tutti legittimamente presupposti: ossia della regolazione tra poli della cittadinanza tutti legittimati come soggetti presuntivamente autonomi e differenziati da una comune divisione sociale del lavoro.
Non può interessarci cioè, in quanto sterile di futuro, la concezione che già Trasimaco esponeva della politica, nel I° libro della Repubblica platonica, come l’utile del più forte, o nel significato contemporaneo di governance, quale tecnica istituzionale di mediazione tra interessi tutti legittimamente presupposti: ossia della regolazione tra poli della cittadinanza tutti legittimati come soggetti presuntivamente autonomi e differenziati da una comune divisione sociale del lavoro.
Politica può significare, a mio avviso, solo politeia, quale partecipazione di tutti i cittadini alla produzione del bene comune e, nell’orizzonte di questo bene comune, destinazione e realizzazione del non-comune, quale affermazione della differenza d’esistenza d’ognuno, quale riconoscimento cioè del più proprio, e irriducibile a quello di altri, progetto di vita.
Ma nello stesso tempo va detto che, nel cuore della nostra contemporaneità, politica non può non essere coniugata insieme ad economia, come ha insegnato la critica dell’economia politica di Marx. Ed appare dunque opportuno muovere da qualche puntualizzazione in tale campo.
Che il lavoro immateriale, il lavoro cioè legato a competenze linguistico-calcolanti o capacità alfa-numeriche, potesse contenere di per sé pratiche di emancipazione, attraverso la messa in comune e in rete delle menti e delle intelligenze individuali – che il lavoro, nel passaggio dall’uso del corpo all’uso della mente, avesse la potenza di dar vita a quel General Intellect di cui lo stesso Marx, in uno dei suoi testi più esposti alla seduzione positivistica dello sviluppo delle forze produttive, ha celebrato la potenza in un famoso passo dei Grundrisse – e che perciò segnasse il transito dal moderno al postmoderno, come fuoriuscita da una civiltà della fatica e dello sfruttamento, è tesi che, mi sembra, sia durata lo spazio di un mattino.
Anche il lavoro immateriale va considerato infatti, in uno spazio di relazioni capitalistiche, come coalescenza e complemento di una macchina, come parte cioè di un sistema che compone insieme lavoro mentale e macchina dell’informazione, nella cui memoria e nella cui intelligenza artificiale sono depositati le possibili risposte già precodificate da un programma che vengono messe a disposizione della scelta dell’operatore. E appunto proprio la possibilità di estrarre dal Marx più serio e rigoroso una teoria della macchina non come di alleggerimento dell’agire umano ma come struttura operativa sempre sistematicamente connessa con un uso specifico della forza-lavoro, consente di leggere la tecnologia informatica, in uso capitalistico o in uso burocratico-amministrativo, come una struttura a rete di governance che impone operazioni e schede predeterminate di lavoro a un lavoro mentale, che per tale via continua ad essere lavoro astratto ma con la dissimulazione e la parvenza di essere lavoro ad alto grado di concretezza e intraprendenza personale.
Ma dopo l’abbandono definitivo della filosofia come scienza dialettica, i più non hanno strumento alcuno per comprendere il nesso di essenza ed apparenza come nesso di dissimulazione attraverso opposizione e non possono dunque intendere come la messa in opera del lavoro alfanumerico dissimuli attraverso l’apparenza di un lavoro personalizzato e intellettualmente creativo la sostanza di un lavoro invece astratto e subalterno che, ben lontano da un’autonomia e una conoscenza reale, trova il senso e la destinazione del suo agire solo nella mente e nell’autorità imprenditoriale di altri.
Dopo l’abbandono definitivo della filosofia come scienza dialettica del nesso degli opposti e dei distinti, i più non possono comprendere come l’essenza del moderno si compendi, a mio avviso, proprio nel rilievo e nella valorizzazione imprescindibile della libera soggettività da un lato e nella sua contemporanea svalorizzazione ad opera di altri vettori di realtà dall’altro: si riassuma cioè proprio nel porre la centralità irrinunciabile del libero soggetto e nel tradurla contemporaneamente da essenza ad apparenza. Basterà ricordare in tal senso quanto scriveva Marx a proposito dello strutturarsi della sfera dello scambio e della circolazione nella società secondo i valori dell’eguaglianza e della libertà e del loro contemporaneo rimandare, in quanto configurazioni dell’apparenza, alle realtà della diseguaglianza e dell’illibertà[1].
Per una rifondazione della politica oggi, dopo la catastrofe antropologica del comunismo orientale che ha attraversato tutto il secolo del ‘900, io credo si debba ripartire da qui: da un’antropologia della povertà e della miseria della soggettività nel capitalismo, malgrado la valorizzazione artefatta del suo apparire; da un’antropologia del soggetto debole e spossessato che pure è presente soprattutto nel Marx del Capitale, quando abbandona i toni trionfalistici della potenza dell’homo faber e costruttore, che egli stesso, in vero, ha consegnato in eredità ai miti novecenteschi più ciechi e incontrollati sia del progresso industriale che di una fantomatica classe operaia, nella sua potenza di soggetto, sempre anticipatrice della storia e dello sviluppo capitalistico.
In questo senso non è chi non veda la tragedia teorica e politica dell’operaismo e del post-operaismo italiano che della definizione marxiana del lavoro moderno come ciò che è «il non-capitale» ha voluto sempre assolutizzare ed ipostatizzare la forza-lavoro come principio di una soggettività autonoma e di per sé oppositiva al capitale – di una soggettività cioè, in quanto tale, negatrice e rivoluzionaria della società capitalistica – senza vedere quella connotazione della forza-lavoro come «povertà assoluta», come «completa spoliazione», come «esistenza del lavoro priva di ogni oggettività», pure ben presente nella teorizzazione marxiana[2]. Tanto che c’è chi, continuando ad alimentare la medesima impostazione unilaterale ed astratta, celebra oggi i fasti di una cosidetta Italian Theory, rivendicando alla tradizione italiana una radicalità etica e politica di opposizione sconosciuta ad altre tradizioni culturali dell’Occidente: ma appunto senza riflettere adeguatamente sul corto circuito che l’operaismo ha sempre voluto compiere, traducendo immediatamente e funambolicamente l’esclusione economico-sociale della forza-lavoro da tutta l’oggettività dei mezzi di produzione e dal mondo-ambiente (quella che appunto Marx ha definito la povertà assoluta) in una ricchezza di opposizione negatrice e già presaga di superamento rivoluzionario.
Invece per chi non cade nelle trappole logico-semantiche del linguaggio, per chi non ipostatizza la negazione traducendola da subito in opposizione, c’è bisogno, come s’è detto, di altro: di muovere da un’antropologia povera, di svuotamento e di compensazione illusoria della soggettività, per poter riavviare un discorso di emancipazione.
Ma condizione imprescindibile di questo nuovo avvio è di sottrarci alla pesantezza del dispositivo ontologico che Martin Heidegger, anche qui con una retorica opposta, che dissimula un pensiero forte nella parvenza di un pensiero debole, ha imposto come pietra tombale sul pensiero filosofico del ‘900. Perché Heidegger ha voluto pensare la modernità con la riproposizione di una categoria fortissimamente identitaria, e per questo, superata da tutto il pensiero occidentale moderno, qual’è stata la categoria e il principio dell’«Essere». Ha voluto cioè riproporre, a mio parere, quella che per molti studiosi risulta essere solo una reificazione del linguaggio, l’ipostatizzazione in termini ontologici di una espressione linguistica, ricadendo nell’antico errore eleatico per cui la parola prende il posto della cosa e il simbolo acquista valore autonomo rispetto alla cosa simboleggiata[3]. Ma con l’accortezza di rivestire quella categoria, nella sua veste arcaica ormai impresentabile e inutilizzabile, nella forma e nei termini di una teologia negativa, per la quale il darsi dell’essere è sempre un sottrarsi, il disvelarsi è sempre un velarsi: dato appunto l’abisso, l’eterogeneità radicale, la differenza ontologica che pone in rapporto e nello stesso tempo distanzia Sein e Dasein, Essere ed Esserci.
Con la conseguenza, per quello che qui c’interessa maggiormente sottolineare, che l’essere più propriamente in comune degli esseri umani è l’«essere per la morte», quale consapevolezza la più rigorosa, della finitudine del Dasein e della sua destinazione più autenticamente progettuale: istituita sull’assolutezza di una «possibilità» che nientifica ogni «necessità» imposta da contesti dati di storia e di vita, per aprire l’esistenza individuale a un orizzonte ulteriore. «L’essere-per-la-morte, come anticipazione della possibilità, rende possibile la possibilità e la rende libera come tale»[4]. Perché il Dasein in tanto è un Mitsein, un essere con gli altri, in quanto ha in comune con tutti gli altri il fondo che costantemente lo altera e lo rende improprio, nel senso della mancanza di proprietà, rispetto a sé stesso. Perché l’individuo non incontra una comunità, bensì ne partecipa in modo originario attraverso la sua natura exstatica, quale ex-sistentia, che si possiede solo rinunciando al suo esistere naturale e alterandosi nell’assolutamente Altro da cui deriva. Quell’assolutamente Altro che ci unifica a priori, ancor prima di essere fisicamente nati, perché apre da sempre il Dasein in un essere-con, in uno spazio comune con ciascun altro Dasein: a mezzo dell’espropriazione, ontologica e pre-originaria, che in anticipo il Sein compie del nostro Da/sein, liberato da una rappresentazione riduttiva di sé quale semplice ente naturale e quale presunta presenza e padronanza di sé medesima.
Il Dasein, l’Esserci heideggeriano ha una costituzione che è intrinsecamente alterazione, proprio perché ha a proprio fondamento l’assolutamente Altro, il grande Altro: tanto che la più autentica appropriazione di sé da parte del Dasein consiste propriamente nell’espropriazione che gli arriva attraverso l’invio e la chiamata dell’Essere; significa nientificazione della sua corporeità storico-biologica, della catena generazionale, psichica e sociale, da cui nasce la sua individualità, ed accoglimento del nulla, del non essere della morte come luogo privilegiato di provenienza e di senso della sua esistenza.
Su questa espropriazione ontologica dell’esistenza umana, che nel venire espropriata dall’Essere trova il suo più vero ed autentico «proprio», su questa strutturale mancanza ad essere che rende fallaci ed estrinseche tutte le identificazioni, su questo «singolare plurale», su una comunità ad-venire che si annuncia e senza comunità e senza sovranità, perché fissarsi in permanenze di leggi e istituzioni significherebbe tornare a società identitarie e repressive, ha riflettuto e teorizzato, ciascuno in un suo modo specifico, tutti i pensatori che da Heidegger hanno preso le mosse e che del vuoto e del nulla hanno fatto le categorie originarie del loro pensare (J.-L. Nancy, J. Derrida, G. Agamben, R.Esposito), e che sulla valorizzazione del vuoto hanno costruito la loro visione della politica come comunità che rifiuta ogni istanza istituzionale, ogni ius. Perché la comunità è già iscritta nell’esistenza estatica del Dasein, ovvero il Dasein è già l’Essere della comunità. Perché il «con», come dice Nancy, non è qualcosa che si aggiunge all’esistenza ma è la chance stessa, la possibilità più originaria ed immanente all’esistenza.
Il cuore della genialità conservatrice di Heidegger – la chiave di volta della sua filosofia disincarnata e neo/teologica – si colloca dunque, a mio avviso, nella capacità di esser tornato a proporre una categoria arcaica e così logora come quella di «Essere» e, contemporaneamente, di averla sottratta a quell’orizzonte di «necessità», in cui fin dalla sua prima formulazione eleatica, era stata concepita e coniugata. E di aver voluto porre nel cuore della necessità dell’Essere l’accendersi della «possibilità» e dell’«apertura». Di aver voluto cioè risignificare la tradizione antica, o per dir meglio arcaica, della necessità nel verso della valorizzazione moderna della libertà e della possibilità. Consegnando così ai suoi contemporanei un’antropologia senza corpo e senza sangue che, proprio perché disincarnata, ha messo in scena una fuoriuscita palingenetica dalla modernità istituita sulla vuotezza leggera della possibilità.
I più non hanno visto per nulla l’aporia di questo discorso, consistente appunto nella forzatura e nell’arbitrio di aver voluto piegare e aprire il necessario nel verso del possibile – di aver voluto ossia coniugare insieme due piani dell’esperire diversi e non sovrapponibili tra loro – e di conseguenza hanno applaudito ed aderito a un progetto di trasformazione che, invece, celava, senza neppure dissimularlo troppo a chi avesse avuto occhi per vedere, un progetto di conservazione.
Perciò è necessario, io credo, ripartire da qui. Cioè ritornare a concepire Weltanschauungen ed antropologie filosofiche che tornino a connettere e ad articolare, ma nella distinzione delle loro rispettive funzioni e modalità d’esistenza, «necessario» e «possibile». Affinchè il possibile si configuri come pensiero e prassi del futuro incarnati nel necessario del presente, radicati nella sua materialità, e dunque capaci di estrarne percorsi concreti e determinati di alterazione che non si perdano nell’indeterminatezza di un’alterazione mossa da un assolutamente Altro.
2. Una mente al quadrato
E’ necessario dunque superare il blocco che il paradigma della differenza ontologica ha imposto a una rifondazione effettiva e feconda della politica: prendere atto cioè dell’estenuazione del paradigma dell’ontologia esistenziale di Heidegger e avviarsi su un percorso fecondato dalla scienza psicoanalitica che, nel riferimento ad un modello teorico alimentato sia dal freudismo che dallo junghismo, rompa da un lato con il semplicismo e la sterilità dell’antropologia comunitaria del marxismo, e si tenga per altro lontano dal cerebralismo e dalle fumoserie sofistiche di Jacques Lacan, troppo esposte anch’esse fin dall’inizio, e non a caso, al vuoto nullificante della differenza ontologica.
E’ necessario cioè, io credo, ripensare platonicamente il nesso tra antropologia e politica, secondo il motivo di una compresenza e di un intreccio tra società interna o societas infrasoggettiva e società esterna o societas intersoggettiva. Ripensare il parallelismo platonico tra psiche e politica a muovere da un asso di verticalizzazione del soggetto umano, da una societas infrasoggettiva appunto, che s’opponga alla verticalizzazione abissale e senza fondo della differenza ontologica.
L’infrasoggettività della psiche freudiana è istituita sulla natura una e bina dell’essere umano, nella quale la mente nasce come funzione terapeutica del corpo, come luogo di mediazione tra i bisogni e le pulsioni del corpo da un lato e l’ambente esterno dall’altro. La mente cioè ha il compito di tradurre nella presenza della rappresentazione psichica l’irrappresentabile del corpo, costituito da processi fisici, di natura energetico-chimica, originariamente irrappresentabili perché di composizione e di matura solo quantitativa. In tale prospettiva alla distanza abissale e metafisica della differenza ontologica si contrappone la dualità infrasoggettiva di quantità e qualità: in una connessione tra il sentire del corpo che non è un conoscere da un lato e il riconoscere, dall’altro, da parte della mente di questo sentire, accogliendolo nella luce della sua presenza e mettendolo in relazione con le possibilità di realizzazione offerte dalla realtà del mondo esterno.
Ma le scienze psicoanalitiche, va aggiunto, oltre a tale compresenza di un sentire che non è un conoscere e, viceversa, di un conoscere che non è un sentire – oltre a tale eterogeneità in senso kantiano dell’asse verticale di costituzione del soggetto umano – ci esortano a comprendere il multiversum della mente umana secondo la funzione ulteriore di un asse orizzontale, intersoggettivo, possiamo dire hegeliano di costituzione della mente: ovviamente intrinsecamente connesso, ma pure eterogeneo e distinto dalla destinazione e funzione verticale del primo. Ci esortano cioè ad approfondire di quanto il limen, il confine, tra sentire e conoscere, che segna l’eterogeneità dell’asse verticale, possa costruirsi secondo il verso dello scambio e della cooperazione o, all’opposto, secondo il vallum romano di ostilità e di contrapposizione tra nemici, a seconda del dialogare o del confliggere che si possa dare sull’asse hegeliano dell’intersoggettività e del riconoscimento. Perché la mente, nel suo essere processo secondario e non primario, riesce gradualmente non farsi invadere ed allagare dalla potenza della bisognosità pulsionale e degli affetti, riesce cioè ad apprendere a riconoscere e a simbolizzare a sé medesima il più proprio corpo emozionale, solo a patto che venga inizialmente contenuta da un’altra mente già capace d’identificare e nominare la natura di quell’affetto, ossia di assumerlo e riviverlo dentro di sé per restituirlo, smorzato e riconosciuto, rispetto al suo eccesso originario, alla prima mente in questione[5].
Ci esortano cioè le scienze psicoanalitiche a riflettere sul quanto il processo d’individuazione di ogni singolarità, il suo darsi o meno, quanto a transito, con il minor grado di censura e di repressione possibile sull’asse verticale – la profondità o meno del riconoscersi di ogni individualità umana – dipenda da un essere riconosciuto, da un essere contenuto da un’altra mente, già capace in qualche modo del riconoscimento di sé stessa e dell’altro da sé: ossia che la fluidità simbolica di una mente sull’asse verticale dipenda dalla mente al quadrato che si accende sul suo asse orizzontale, dal suo essere contenuta e riconosciuta da un’altra mente. Che dunque, in questa rilettura psicoanalitica della peculiare comunicazione che per Spinoza si consuma da «mente a mente», il grado d’individuazione possibile sia strettamente connesso al grado di socializzazione che si realizza nell’essere ciascuno contenuto di un contenitore altrui.
3. La morte dell’intellettuale e la politica come terapia
Ma giunti a questo punto del discorso, ispirati, come siamo, fin dall’inizio al parallelismo platonico tra antropologia e politica, è pressocché d’obbligo che anche noi si proponga e si stringa analogie, ovviamente nei termini della nostra contemporaneità, tra struttura e costituzione della psiche e del soggetto individuale e struttura e costituzione del soggetto politico di un possibile progetto di emancipazione e di trasformazione del presente. Giacchè quale soggetto potenziale d’iniziativa storica, ma bisognoso ancora d’essere riconosciuto per riconoscersi, al pari delle difficoltà di pensiero e di simbolizzazione che connotano la mente infantile, appare, a ben vedere, l’umanità di una forza-lavoro destinata dalla collocazione sociale di nascita e da un determinato percorso scolastico-formativo a fornire alla ricchezza astratta del capitale la mente informatico-calcolante necessaria alla sua valorizzazione. Una mente cioè, quale appare quella del nuovo lavoro mentale, astratta e separata dal dialogo interiore col proprio corpo emozionale come luogo privilegiato da cui attingere il senso del vivere e dell’agire, e tutta predisposta a un dialogo invece esteriore nell’accogliere significati, informazioni e percorsi di lavoro già precodificati e ordinati secondo codici e intenzioni di altri da sé.
A produrre tale tipologia di «soggettività capitalistica», istituita su una separazione opposta a quella del lavoro taylorista-fordista, a produrre una mente consegnata a una semantica decorporeizzata e anaffettiva, ha concorso del resto, non a caso, con particolare riferimento alle vicende italiane lo svuotamento/superficializzazione della scuola pubblica, culminato nell’incredibile riforma universitaria del 3+2, atto di morte di una possibile università qualificata e di massa e celebrato invece dalla quasi totalità del corpo docente con il giubilo di una provvidenziale modernizzazione.
Di fronte a tale realtà della forza-lavoro capitalistica, lontana da antiche celebrazioni, vale richiamare la concezione gramsciana della politica non come tecnica dell’agire di un soggetto presupposto ma come prassi il cui oggetto specifico di produzione è proprio la nascita e la genesi di una soggettività collettiva, capace di iniziativa e trasformazione storica.
La politica per Gramsci, per dirla in termini hegeliani, non è funzione di soggettività presupposte ma produzione, essa medesima, di soggettività. Non è tecnica che rimanda a soggettività già costituite, sia nel senso individualistico della tradizione liberale sia nel senso collettivistico della tradizione comunista. E’ bensì terapia, se è consentito tradurre il linguaggio del Gramsci dei Quaderni nelle nostre categorie: propriamente quale elaborazione di un inconscio ideologico che la classe subalterna inevitabilmente patisce e subisce, proprio per il suo essere subalterna, rispetto al dominio culturale e rappresentativo della classe dominante. Il muovere da un’assenza iniziale di soggettività storica, ossia da una soggettività povera – come accade al Gramsci del carcere e della epocale sconfitta dei comunisti in Occidente – implica infatti che la politica, lungi dall’essere applicazione del paradigma amico-nemico, sia non critica dell’altro ma, in primo luogo, autocritica, critica del sé, come appunto attraversamento critico delle forme di identificazione e di rappresentazione di una coscienza subalterna colonizzata dalle apparenze più estrinseche e più dominanti dell’essere sociale. Ovviamente, è da aggiungere che questa teorizzazione della politica come terapia psicoanalitica è esplicitazione tutta nostra della tematica gramsciana che, lontana dall’orizzonte categoriale della psicoanalisi, non è giunta mai ad argomentare in tali termini. Preferendo piuttosto esprimersi, il Gramsci dei Quaderni, sulla necessità, da parte di una classe subalterna per nascere alla storia, di elaborare una ideologia «totalitaria»[6], ossia una concezione del mondo unitaria e coerente, al cento per cento autonoma dalle insidie e dalle subalternità che nascono dalle visioni del mondo importate da altri.
Ma, al di là della terminologia usata, quello che è certo – almeno così a me sembra – è che il Gramsci dei Quaderni abbia inteso la politica come una complessa pratica del riconoscimento, o meglio dell’autoriconoscimento, nel senso, come dicevo, della maturazione da parte di ceti originariamente e strutturalmente subalterni di una coscienza di sé che potesse far riferimento al sentire e all’esperire proprio, senza aver bisogno di risolverlo e tradurlo nei concetti e nelle rappresentazioni di altri: per poter competere, solo a muovere da quella coincidenza tra essere pratico ed essere conoscitivo, quanto ad universalità ed egemonia di proposte, con le ideologie e le parti sociali antagoniste. Motivo per il quale Gramsci in carcere rilegge a suo modo, profondamente innovandole, tutte le categorie di un materialismo storico che intendeva sottrarre al riduzionismo ed all’economicismo del marxismo sovietico di struttura e sovrastruttura e alla critica radicale del materialismo storico che ne aveva tratto con conseguenza rigorosa Benedetto Croce.
Così per Gramsci il materialismo storico diventa una filosofia della prassi, nella quale prassi è, più che prassi economica, trasformatrice dell’oggettualità naturale, prassi ideologico-politica che produce e forma soggettività. Il dualismo ontologico di struttura e sovrastruttura diviene la tripartizione di società economica-società civile-Stato, in cui la società civile, lontana dalla strutturazione prevalentemente economica assegnatale da Hegel e Marx, diventa il luogo delle istituzioni pubbliche e private che producono e si confrontano nell’ambito della produzione delle idee e delle ideologie. E la politica si identifica con la filosofia nella misura in cui produzione di egemonia significa, produzione di una verità che riconduce a coerenza ed autonomia un gruppo sociale e, contemporaneamente, produzione di una universalità di idee e di valori capaci di estendersi in una latitudine quanto più ampia possibile.
Ma, come ho già detto altrove, il marxismo di Gramsci è, nell’originalità della sua attenzione alla sovrastruttura, alla formazione del consenso e del dissenso ideologico, un marxismo senza Capitale, poco attento cioè agli effetti di feticismo e di produzione di falsa coscienza immanenti alla struttura economica stessa[7]. E da questo limite della sua prospettiva nasce io credo l’impossibilità di mettere a tema il processo capitalistico come un processo di produzione dell’astratto e della soggettività ad esso conforme. Ossia nasce l’impossibilità di trovare proprio nel darsi di un’astrazione reale la mediazione, cercata ma non trovata, se non in modo estrinseco ed autoritario da Gramsci, tra la massa degli esseri umani che «sente ma non comprende né sa» e l’intellettuale che «sa, ma non comprende e specialmente non sente»[8]. Per dire insomma che la lontananza di Gramsci dal leggere il Capitale di Marx come produzione dell’astratto e delle forme della sua dissimulazione gli hanno impedito di trovare nell’astrazione dei processi di lavoro capitalistici l’ancoraggio corporeo, la verifica incarnata dell’astrazione logico-concettuale propria dei processi conoscitivi. Con la conseguenza inevitabile di concepire il partito come un organismo militare con una trasmissione e una diffusione dall’alto del proprio progetto ideologico e politico.
Ritornare a pensare alla teorizzazione gramsciana della politica come terapia, come cura e nascita alla vita e all’iniziativa storica di un soggetto povero – come pratica non violenta di autocritica e di autoriflessione – non implica dunque concordare con la metodologia e il percorso terapeutico che il rivoluzionario comunista proponeva nella sua meditazione deposta nel Quaderni del carcere. La soluzione del partito come struttura fondamentale della politica appare ormai come svuotata di senso e di ogni prospettiva futura, a fronte della sua strutturale natura violenta ed oppressiva quale luogo di autoriproduzione e conferma di un ceto parassitario e privilegiato che vive dell’occupazione e della gestione delle istituzioni rappresentative. Appare, cioè, la soluzione gramsciana come ancora fortemente gravata da una idealizzazione eccessiva, cara alla tradizione dell’hegelismo ottocentesco meridionale degli Spaventa e dei De Sanctis, del ruolo e della funzione degli intellettuali.
Ma del resto ormai la democratizzazione e la massificazione del lavoro intellettuale, la messa al lavoro della mente nella cosidetta società della conoscenza, la specializzazione sempre più parcellizzata delle competenze, ha dissolto la peculiarità di un ceto intellettuale presuntivamente capace di ricomposizioni e sintesi teoriche universalizzanti. Dunque tanto più appare improponibile lo schema gramsciano dell’incontro e della mediazione, nel partito politico, tra ceti sociali e intellettuali organici.
Per una mediazione feconda tra individuazione e socializzazione occorre pensare ad altro. Occorre mettere in campo – per l’unica via proponibile che la tristezza del presente appare offrire – il concepimento di una scenografia utopica dalla quale poter attingere nuove configurazioni socio-antropologiche capaci di sollecitare, non immediate ricadute nella realtà, ma prefigurazioni di un’antropologia e di una società ad/venire. Senza tuttavia dimenticare la profondità della miseria e indeterminatezza di vita cui è giunta l’umanità contemporanea.
Occorrerebbe cioè pensare, almeno per quello che mi concerne, a percorsi e istituzioni della conoscenza, che mirino a intrecciare profondamente conoscere e riconoscere: che cioè mentre acquisiscono la padronanza concettuale e teoretica di un sapere condiviso non rinuncino a che ciascun soggetto conoscente sia al contempo riconosciuto, e soprattutto capace di riconoscersi da sé medesimo, quanto alla propria peculiare e irripetibile individualità emozionale.
E’ evidente che oggi ci si muove in una direzione completamente opposta. E i giovani laureati cinesi e indiani stanno a testimoniare quanto feroce sia la strada di un conoscere ultraspecializzato, capace di competere sul mercato mondiale, a fronte, appunto di una mortificazione del proprio sé e di un’addestramento alla divisione del sapere e alla specializzazione informatico-calcolante cui si viene avviati fin dall’infanzia. Ma appunto, di fronte a un conoscere che è sempre più conoscere dell’oggetto e non un conoscersi del soggetto, ciò che va pensato, in opposizione, è un conoscere che sia, contemporaneamente, luogo del riconoscimento. Posto che Erkennen (conoscere) ed Anerkennen (riconoscere) siano, come a me pare, due funzioni costitutive e insieme distinte della soggettività umana: la prima, caratterizzata da una processualità logico-discorsiva, la seconda da una condizione emotiva di coincidenza con sé e con la propria scala di valori/disvalori affettivi.
Così, sul piano, non conoscitivo, ma economico-produttivo bisognerebbe pensare a pratiche di produzione di finalità e beni comuni che garantiscano nello stesso tempo il riconoscimento delle differenze individuali e della modalità, per ognuno diversa, di accedere a quel bene comune. Concepire cioè un tipo di prassi che, mentre produce economicamente risultati, sia autoriflessiva e produca eticamente il soggetto che la pone in essere, attraverso il riconoscimento delle diversità dei tempi e dei modi con cui ciascuno può partecipare a quella produzione comune: un essere riconosciuto sul piano dell’asse orizzontale che consenta ad ognuno di riconoscersi nell’unicità del suo esistere e di percorrere la verticalizzazione del proprio sé al più basso costo possibile di repressione e censura.
Questa compenetrazione di economia e di etica chiama in causa un dar forma che è di natura ancipite, oggettiva e, in pari tempo, soggettiva, nel senso che, mentre lavora e dà forma allo scopo, all’oggetto, contemporaneamente dà forma e lavora il soggetto. Verosimilmente solo questo tipo di prassi, insieme economica ed etica, consente di superare le rigidità della distinzione harendtiana tra lavoro, opera e azione. Ma soprattutto è una tipologia di prassi – come insieme di produzione d’oggettualità e di produzione di riconoscimento – che implica e pretende la dimensione del gruppo, come livello di identificazione intermedio tra i livelli dell’individualità singola e delle socialità impersonali amministrativo-politiche: una dimensione di gruppo fortemente identitaria verso l’esterno e fortemente differenzialista verso l’interno, che consenta a ciascuno, all’interno di quel gruppo, di essere riconosciuto e valorizzato come partecipe al progetto comune e, tramite quella valorizzazione, di essere accompagnato nel percorso del suo riconoscersi.
Portare questa riflessione sulla funzione del gruppo e delle pratiche di riconoscimento all’interno della nuova intellettualità di massa, prodotta e richiesta dalla nuova fase del capitalismo informatico, implica ovviamente acquisita la consapevolezza dell’esaurimento della tradizionale funzione degli intellettuali come minoranza illuminata che portava la verità ad altri e che organizzava e attivava politicamente l’inerzia o la passività d’azione di altri. Oggi l’intellettuale è forza-lavoro intellettuale che lavora ed è lavorato all’interno del sistema di macchine informatiche. A muovere dai processi di astrazione e di svuotamento che connotano il suo sapere e il suo lavoro mentale può concepire il politico ormai solo come trasformazione di se stesso. Può solo operare per la trasformazione del proprio contenuto e del proprio specifico ambiente di lavoro, attraverso la formazione di gruppi di lavoro che mettano in opera pratiche di riqualificazione del loro oggetto di lavoro, attraverso scambi e cooperazioni che intensifichino la qualità del loro conoscere, e nello stesso tempo pratiche del riconoscere che consentano a ciascuno di contribuire al dovere comune attraverso il piacere più personale.
Vale a dire, per concludere, che una riapertura del discorso politico, nei termini di una rinnovata antropologia filosofica, richiede, a mio avviso, due procedure di conclusione: la liquidazione del dispositivo heideggeriano della differenza ontologica da un lato e la conclusione del mandato assegnato dallo Junghegelianismus, dai giovani hegeliani, agli intellettuali: ossia che la filosofia si risolvesse, dopo il sistema hegeliano, interamente nella Kritik, nella «critica». E che il filosofo avesse da essere solo filosofo critico, portatore e rappresentante dell’universale e perciò fustigatore di tutte le sue assenze.
A mio avviso oggi la funzione della critica oggi può invece essere svolta solo come autocritica, come prassi autoriflessiva di una intellettualità che critica ed elabora sé medesima, allo scopo di generare una soggettività individuale e collettiva che non può essere mai essere presupposta ma sempre prodotta e posta. Ma a questo punto del discorso, e della sua configurazione utopica, non è chi non veda quanto una fuoriuscita dalla politica come mera tecnica della democrazia e della sua governamentalità implichi un confronto, non esteriore, con quelle scienze psicoanalitiche che hanno come loro oggetto precipuo d’azione e di cura, la terapia della soggettività povera e dei suoi impedimenti a maturare e a vivere.
Note al testo
[1] Cfr. le pagine dei Grundrisse marxiani dedicate a Scambio semplice. Rapporti tra i soggetti di scambio. Armonie di uguaglianza, di libertà ecc. (Bastiat, Proudhon), in Marx (1976: 181-194).
[2] Ivi, p. 244.
[3]Cfr. su ciò la lezione sempre valida di Calogero (1967).
[4] Heidegger (1976: 319).
[5] Su questo tema mi permetto di rinviare al mio saggio Finelli (2013) Riconoscimento e impossessamento del sé, in «Parolechiave», n. 50, pp. 11-22.
[6] A. Gramsci (1975, II: 1051).
[7] Anche qui, per quanto riguarda la storia del marxismo teorico italiano come «marxismo senza Capitale», mi permetto di rinviare ai miei saggi: Finelli (1997, 2005, 2007, 2010).
[8] Gramsci (1975: 1415-1416).
Bibliografia
Calogero, G. (1967), Storia della logica antica, Vol. 1: La logica arcaica, Laterza, Bari.
Finelli, R. (1997), Autonomia e legittimità del socialismo, Introduzione ad A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Ediesse, Roma 1997, 9-43.
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Articolo pubblicato su Consecutio Rerum
Fonte: sinistrainrete.info
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