di Marco Nicastro
Man mano che i giorni passano e ci avviciniamo alla fatidica data del 4 dicembre si fa sempre più serrato il confronto tra le parti del Si e del No al Referendum Costituzionale. Un confronto che in realtà molto spesso si risolve in uno scontro tra due posizioni emotivamente polarizzate, lasciando poco spazio all’approfondimento dei contenuti del dibattito. Questo, a dire la verità, mi pare avvenire più dalla parte dei sostenitori del Sì, che hanno da tempo impostato la loro battaglia sulla falsariga della semplificazione operata dal quesito che sarà riportato sulla scheda di voto; una ripetizione pura e semplice dei numerosi vantaggi della riforma, dinnanzi ai quali nessun cittadino di buon senso si sognerebbe di dire di no, se fossero veri o se fossero gli unici elementi oggetto di cambiamento della stessa.
Ed è proprio questo il primo dei punti che vorrei affrontare in questo mio contributo, il cui scopo sarebbe quello di fare un po’ di chiarezza nel merito della questione “Riforma Costituzionale”, peraltro molto complessa e, almeno in certi suoi punti, materia adatta più ai costituzionalisti e ai filosofi del diritto che al cittadino medio.
Ed è proprio questo il primo dei punti che vorrei affrontare in questo mio contributo, il cui scopo sarebbe quello di fare un po’ di chiarezza nel merito della questione “Riforma Costituzionale”, peraltro molto complessa e, almeno in certi suoi punti, materia adatta più ai costituzionalisti e ai filosofi del diritto che al cittadino medio.
Punto numero 1: La questione del quesito referendario
Il Tar, si sa, ha recentemente bocciato il ricorso presentato dal M5S relativamente alla legittimità del quesito che ritroveremo sulla scheda (per un difetto di giurisdizione, lo ricordiamo). Il quesito, posto così, non può essere definito falso quindi potrebbe ben dirsi legittimo, ma è, a mio avviso, quantomeno parziale e sbilanciato, poiché riflette bene il modo in cui i sostenitori del Sì hanno impostato fin dall’inizio la loro compagna referendaria: evidenziare in modo semplificato gli aspetti positivi della riforma, a mo’ di spot, evitando di soffermarsi sugli aspetti più problematici e delicati di essa che pure ci sono, come numerosi costituzionalisti di spessore hanno rilevato.
Certo, non si poteva pretendere che fosse tutto scritto su una piccola scheda di voto; ma parlare di riduzione dei costi, di abolizioni di enti supposti inutili, di riduzione del numero dei parlamentari, e solo genericamente di “riforma del titolo V” (questione che molti italiani ignorano nei dettagli) è dizione chiaramente sbilanciata dalla parte dei benefici supposti tali dai promotori del Sì, perché non fa menzione di altri aspetti altrettanto importanti che stanno proprio all’interno del sintagma “riforma del titolo V”. Questa modalità di presentazione mi ricorda da vicino le pubblicità ingannevoli fatte dai promotori del gioco d’azzardo: nello spot ti spiattellano chiaramente i benefici del gioco (il divertimento, ad esempio, o le possibilità di vincita) per poi passare ad elencarne gli effetti collaterali tramite diciture piccolissime che scorrono velocemente nella parte inferiore dello schermo televisivo e che, per questo, risultano difficilmente leggibili e assolutamente secondari per l’attenzione del telespettatore, (mentre dovrebbero costituire la parte più importante del messaggio, specie se passano in un canale di rilevanza pubblica). Spot di questo tipo sono probabilmente legali sul piano formale perché elencano anche gli aspetti negativi e i rischi del gioco d’azzardo, ma di certo sono anche ingannevoli da un punto di vista psicologico, perché troppo sbilanciati dalla parte degli aspetti positivi del gioco d’azzardo che, nello spot, hanno maggiore rilevanza ed appeal per la mente del telespettatore.
Quindi promuovere la riforma con modalità di questo tipo in tv (vedi, ad esempio, le famose slides), o porre un quesito per iscritto secondo modalità di questo tipo, risulta a mio avviso scorretto da un punto di vista etico, seppure formalmente corretto.
Punto numero 2: antecedenti politici e questione del cosiddetto “combinato disposto”
Il Governo Renzi si insedia nel febbraio del 2014, dopo il breve governo Letta (politicamente tradito come sappiamo). In gennaio la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il Porcellum, in particolare facendo riferimento all’abnorme premio di maggioranza, ottenibile senza il raggiungimento di una soglia minima di voti, e alle liste bloccate, che pregiudicavano il diritto di voto come diritto alla scelta del corpo legislativo alterando così il rapporto di rappresentanza elettori-eletti (scelti dai partiti). All’indomani della pronuncia della Consulta si rese dunque necessaria si rendeva necessaria una nuova legge elettorale che possibilmente garantisse sia governabilità – cosa non probabile col proporzionale del Mattarellum che ritornava temporaneamente vigente dopo la bocciatura del Porcellum – sia adeguata rappresentanza.
Renzi, prima di essere nominato Presidente del Consiglio, inizia una serie di incontri esplorativi con Berlusconi per approntare delle riforme istituzionali in un possibile futuro governo: si sancisce il patto del Nazareno, accordo che prevedeva proprio la riforma che adesso ci accingiamo a votare, assieme ad una nuova legge elettorale, l’Italicum, caratterizzata da un alto premio di maggioranza dato alla lista vincente se raggiunge il 40% al primo turno, o comunque vincente al ballottaggio. Anche sulla legittimità costituzionale dell’Italicum attualmente pende un giudizio della Corte Costituzionale, per la mancanza di una soglia di assegnazione del premio di maggioranza al ballottaggio e per la questione dei capilista bloccati.
Al di là di ciò, quello su cui voglio soffermarmi è il fatto che Renzi, una volta insediatosi al governo, ha avviato l’iter delle riforme in modo “combinato”, ossia lavorando fin da subito ad una legge elettorale praticabile solo se fosse stata approvata la riforma costituzionale che aveva pensato con Berlusconi, la quale prevedeva l’abolizione del Senato quale camera elettiva. L’Italicum, infatti, prevede che si voti solo per una Camera e non per due. Ciò ha creato un vincolo istituzionale forte e subdolo al suo mandato (che non definirei proprio democratico, visto che Renzi non è passato dalle urne) bloccandolo difatti per almeno due anni, cioè per il tempo ritenuto necessario per concluder l’iter della riforma costituzionale. Se, infatti, il governo fosse stato sfiduciato prima di portare a termine la riforma, ci saremmo ritrovati come prima ad avere due Camere elettive ma con una legge elettorale, l’Italicum appunto, che disciplina le elezioni della sola camera dei deputati. Difatti, saremmo rimasti senza una legge elettorale a disciplinare l’elezione di ambedue le camere, garantendo un minimo di governabilità, e in una condizione di potenziale stallo istituzionale, data dall’impossibilità o dall’inutilità di andare al voto.
Ora, agire politicamente in questo modo non era un passo obbligato: il Governo Renzi avrebbe potuto lavorare, oltre che su alcune questioni più urgenti di tipo economico, anche in vista di una legge elettorale separata da una possibile riforma costituzionale, dandosi un congruo periodo di tempo per votarla con le più ampie intese (invece di farlo a colpi di fiducia come è stato per l’Italicum) e consentendo agli elettori di poter votare per un nuovo parlamento (diciamo nel giro di sei mesi o un anno) qualora l’iter riformista si fosse bloccato o il governo fosse stato sfiduciato o semplicemente per dare la parola ai cittadini da troppo tempo soggetti a subire governi senza il suffragio del voto. Invece no; Renzi, con l’appoggio di Napolitano, crea le condizioni per uno stallo istituzionale che impedisce di fatto di andare a votare e di proseguire quindi in tutta sicurezza con il suo personale iter di riforme (non espressamente previsto dal programma del PD quando vinse le primarie). Così, una volta avviato tale processo e approvato l’Italicum (che necessita, come detto, di un sistema con una sola Camera e quindi che la riforma costituzionale sia approvata) la successiva pantomima della minaccia delle dimissioni in caso di vittoria del No – la tanto criticata personalizzazione del Referendum – mi pare essere solo una messinscena, perché se Renzi si dimettesse il Presidente della Repubblica Mattarella respingerebbe certamente le dimissioni, dato che il paese rimarrebbe senza una legge elettorale che disciplini l’elezione di ambedue le camere consentendo di andare al voto.
Renzi quindi ha fin dall’inizio pensato di rimanere almeno due anni e mezzo al governo, vincolando di fatto il Paese, ma avrebbe avuto un’alternativa: lavorare col parlamento innanzitutto per una legge elettorale lontana dalle criticità del Porcellum, per poi dare le dimissioni ed eventualmente cercare quella legittimazione popolare attraverso il voto, e solo allora iniziare, forte di questa, un percorso di riforme costituzionali. Invece ci ritroviamo ad assistere impotenti da due anni e mezzo ai lavori riformisti di un parlamento eletto con una legge incostituzionale (il Porcellum) e quindi delegittimato nella sostanza.
Sì, perché la questione etica in processi così delicati dovrebbe essere al centro dell’agire politico. Certo, anche un parlamento eletto con una legge sbagliata può continuare ad operare, come ha spiegato nelle sue motivazioni la Corte Costituzionale quando ha bocciato il Porcellum. Ma il principio in base a cui la Corte si era pronunciata in tal senso era quello della cosiddetta “Continuità dello Stato”, secondo il quale il parlamento può continuare a legiferare per un certo periodo, in attesa di essere sostituito da un nuovo parlamento. Ma legiferare per un certo periodo (e gli esempi in tal senso fatti dalla Corte sono relativi a periodi decisamente più brevi, di alcuni mesi) non significa propriamente lavorare per 3 anni ad una riforma costituzionale (vedi il contributo del prof. Alessandro Pace, apparso su Micromega il 1 marzo 2016, e disponibile qui). Quindi si potrebbe sostenere che l’attività così lunga di un parlamento eletto con una legge incostituzionale sia quantomeno anomala in democrazia, specie se si tratta di varare una riforma costituzionale.
Il problema etico, in ogni caso, rimane.
Punto numero 3: riforma del Senato e fine del “bicameralismo perfetto”
Verrà abolito il Bicameralismo paritario? Mi verrebbe da rispondere: “ni”, almeno sulla base di quello che ho compreso fin qui. Il nuovo Senato (la questione del Senato mi pare in effetti la più complessa) dovrebbe essere formato da soli 100 senatori scelti tra sindaci e consiglieri regionali; non voterà più la fiducia e avrà competenza su specifiche questioni di legislazione e regolamentazione degli enti locali, delle regioni e su alcune questioni di politica europea. Potrà votare secondo il sistema paritario attuale le riforme costituzionali, le leggi elettorali e la legge comunitaria, che rappresenta uno degli impegni legislativi più importanti che il parlamento deve annualmente affrontare; inoltre potrà richiamare a sé le leggi e proporre delle modifiche tutte le volte che vorrà, entro 30 giorni dal varo delle leggi alla Camera, se un terzo dei senatori sono d’accordo. Quindi il bicameralismo non è completamente abolito ma solo indebolito, e la fluidità del procedimento dipenderà anche dall’atteggiamento che avranno i nuovi senatori.
I sotenitori del Sì ritengono che la riforma del Senato comporterà una velocizzazione e semplificazione dell’iter parlamentare di discussione e approvazione delle leggi, elemento che, secondo loro, avrebbe causato la lentezza a legiferare del nostro Parlamento. Eppure, alcuni dati (clicca qui) chiariscono che solo una minoranza delle leggi ordinarie (circa il 20%) discusse in parlamento ha subito negli anni la cosiddetta navetta (il rimpallo tra le due camere) con conseguente allungamento dei tempi di approvazione; difatti i tempi di approvazione delle leggi ordinarie in Italia vanno dai 5 ai 12 mesi, non molto distante dai dati provenienti da altri paesi europei, anche in termini di numero di leggi approvate. Più che il bicameralismo, il problema pare essere l’uso politico dei regolamenti parlamentari, che impedisce ad esempio, se appunto non c’è la volontà politica (e direi anche un’etica politica votata all’interesse pubblico), di calendarizzare la discussione di una proposta di legge (basti pensare alla proposta recente del M5S sul taglio degli stipendi, rimandata in commissione e lì destinata certamente ad essere sepolta sotto altre più “urgenti” per la maggioranza, oppure al disegno di legge sulla prescrizione, fermo in commissione al Senato da più di due anni per l’opposizione dei centristi dell’attuale maggioranza e di parte del PD). Ma degli esempi possono essere fatti anche in senso opposto, pensando che addirittura alcune leggi costituzionali, penso all’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio in costituzione, che per loro natura richiedevano un procedimento più lungo di approvazione e doppi passaggi tra le due Camere, sono stati approvate in tempi brevissimi, addirittura di 3 mesi!
Può darsi quindi che, con la riforma, ci sia una velocizzazione dell’iter legislativo; ma il problema rimane il regolamento parlamentare e il lavoro nelle commissioni, che decidono, sulla base di accordi interni tutti politici, quali leggi discutere e approvare in parlamento e quali rimandare sine die. Infatti, l’art. 64 dell’attuale Costituzione recita: «Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti» e l’art. 72 specifica: «Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa […] Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza. Può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. […] Il regolamento determina anche le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni.» (corsivo mio).
È evidente quindi come l’iter di approvazione di una legge sia determinato innanzitutto dal regolamento che le Camere adottano (e che possono anche modificare, come dice la Costituzione) e che una legge può essere rimandata nelle commissioni apposite dove vigono le stesse maggioranze che siedono in parlamento, le quali decidono come calendarizzare i lavori sui disegni di legge. Inoltre, come dice la parte finale dell’articolo, valutano anche se e come rendere pubblici i lavori delle commissioni e mi pare sia esperienza comune, in Italia, la non sufficiente trasparenza di questi, cosa denunciata più volte dal M5S. Certamente quindi conm la riforma il potere del nuovo Senato verrà ridotto e l’iter in qualche modo semplificato, ma non sono i poteri dell’attuale Senato gli unici elementi di freno all’approvazione delle leggi, né i più importanti, una criticità che non viene mai approfondita dalla propaganda dei promotori ufficiali del Sì.
C’è da dire comunque che, con la riforma, anche il potere della Camera viene ridotto dinnanzi al Governo, poiché essa prevede espressamente che quest’ultimo abbia la facoltà di imporre all’ordine del giorno e a pronuncia definitiva un disegno di legge ordinario ritenuto però unilateralmente essenziale. Questo implica certamente uno sbilanciamento verticale dei poteri nella nostra democrazia parlamentare, con una subordinazione maggiore del Parlamento (il legittimo rappresentate dei cittadini perché direttamente votato) alle iniziative del Governo. Uno sbilanciamento che risulta aggravato dal carattere ipermaggioritario e poco rappresentativo dell’Italicum e dal meccanismo di designazione dei nuovi senatori, non più direttamente eletti.
Non appaiono infine del tutto pertinenti i parallelismi giustificativi fatti dai sostenitori del Sì con i “Senati” di altri stati, come la Francia o la Germania, né per costituzione, né per i mandati degli stessi. Da questo punto di vista, il costituzionalista Jörg Luther, prof. All’Università del Piemonte Orientale, ha spiegato come nel Bundesrat tedesco (il Senato tedesco), le autonomie locali e i governi regionali si fanno rappresentare sia da politici che da tecnici delle loro amministrazioni, ragion per cui la funzione di raccordo con le esigenze del territorio è diretta, competente e soprattutto non esclusivamente politica, nel senso che i rappresentanti delle regioni votano con voto conforme agli interessi regionali, indipendentemente dall’appartenenza politica (clicca qui per leggere l’intervista). Poiché ancora non si sa qual sia il meccanismo di designazione dei nuovi senatori, questi potrebbero rappresentare semplicemente le maggioranze politiche di una regione che, se coerenti con quelle del Governo in carica, potrebbero non fare gli interessi delle autonomie locali, ma quelle del partito centrale, sminuendo di fatto la funzione di rappresentanza regionale e di raccordo del nuovo Senato e rafforzando ulteriormente il potere dell’esecutivo. Il giurista conclude: «Il Bundesrat tedesco è strumento di partecipazione degli enti territoriali al parlamento federale, ma l’esperienza dimostra che la rappresentanza degli interessi territoriali conta molto poco rispetto a quella degli interessi di partito e alle dinamiche delle elezioni regionali, ragione questa forse non sufficientemente ponderata nel progetto governativo italiano. In sintesi: non è detto che il modello tedesco non possa essere utile, ma il diavolo sta nei dettagli, finora non sufficientemente studiati, del suo adeguamento al contesto costituzionale italiano» (corsivo mio).
Ecco, il diavolo sta nei dettagli e su questioni così complesse i dettagli diventano decisivi e, in particolare nella parte della riforma costituzionale relativa al nuovo Senato, non sono stati ancora definiti a sufficienza, cosa che secondo diversi esperti porterà a nuovi contenziosi tra governo centrale e autonomie e tra le due Camere.
E, a proposito di dettagli, c’è poi lo spinoso problema della “elezione indiretta” dei senatori (se così si può definire), ossia il fatto che saranno, come detto, i consigli regionali a designarli e non direttamente i cittadini, in contraddizione, secondo alcuni giuristi, con un principio della nostra Costituzione che sancisce il voto come il principale strumento della volontà popolare. L’elezione indiretta, si dice, dovrebbe avvenire in “conformità alle scelte degli elettori” espresse al momento dell’elezione dei consigli regionali; ma non è affatto chiaro come ciò si attuerà nella pratica e c’è il rischio che tale modalità elettiva possa non essere così direttamente legata alla volontà popolare e quindi andare incontro al fondamentale principio costituzionale della rappresentanza. Dietro la scarsa chiarezza può celarsi di tutto e quando si parla di Costituzione e di leggi che con essa hanno a che fare non possiamo permettercelo.
Inoltre, credo che ci sia anche un altro problema di legittimità etica, prima che formale, da tenere in considerazione in tutta questa faccenda, specialmente se si considera la condotta non proprio irreprensibile a cui molti deputati italiani, regionali e nazionali, ci hanno abituato negli anni. Conferire a dei senatori non eletti direttamente (e in un modo, come abbiamo visto, ancora tutto da decidere) e depotenziati nelle loro funzioni anche l’immunità parlamentare oggi vigente è intollerabile, considerato che il ruolo di senatore sarebbe ricoperto per un solo giorno alla settimana, mentre nel resto del tempo i sindaci e i consiglieri regionali continueranno a svolgere il loro mandato politico nel territorio di competenza.
Anche questo, credo, sia un punto critico della riforma, che si colloca a mio parere nel solco di un ipergarantismo dei nostri rappresentanti politici senza evidenze storiche che lo legittimino, date le numerose condanne comminate loro negli ultimi decenni per i più svariati e gravi reati. Stando così le cose, sarebbe stato forse più sensato abolire del tutto il Senato, cosa proposta da alcuni movimenti politici; ma non è stata questa purtroppo la linea seguita dalla maggioranza attuale che, in barba alla “rottamazione” del vecchio prima tanto sbandierata, ha preferito seguire ancora una volta la linea di un cambiamento parziale e della conservazione di alcuni privilegi.
Punto 4: la questione dei costi
Si parla poi tanto dell’abbattimento dei costi della politica a seguito della riforma, tema che Renzi ha cercato ultimamente di sottrarre al M5S – che ne ha sempre avuto, diciamo così, la paternità – specie dopo che gli ultimi sondaggi rilevano un testa a testa tra PD e M5S nelle preferenze degli italiani, indignati da anni di sprechi e ruberie dei politici. I sostenitori del Sì hanno avanzato cifre assurde, pari a diverse centinaia di milioni di euro. Anche in questo caso però in modo solo propagandistico, perché si tratta di cifre mai supportate da dati precisi. Se infatti ci fossero dei dati chiari a suffragare risparmi di tale entità, credo li avrebbero già mostrati sulla carta. Il fatto che i sostenitori del Sì si mantengano sul vago (sulla propaganda appunto) lascia pensare che tali risparmi non ci siano. Del resto, la Ragioneria dello Stato, organo ufficiale del Ministero dell’Economia, li ha recentemente quantificati in circa 57 milioni di euro l’anno, meno di quello che avrebbe ottenuto, se fosse stata approvata, la proposta di legge del M5S relativa al dimezzamento degli stipendi dei parlamentari (proposta di legge che, in verità, fu presentata anche all’inizio del loro ingresso in parlamento e anche allora bocciata). Peccato che, come al solito, si tirino in ballo gli altri paesi europei come esempio virtuoso da seguire solo nei casi in cui questo conviene – ad esempio, per i sostenitori del Sì, parlando di assenza negli altri stati di un bicameralismo paritario – e non si faccia lo stesso relativamente ad altri dati ancora più evidenti quali gli stipendi, i benefit e i vitalizi dei politici, che in Italia superano quelli dei parlamentari di tutti gli altri stati europei per un ammontare che va dal 30% al 50% (per un confronto clicca qui). Non dobbiamo poi dimenticare che gli spostamenti dei nuovi senatori dalle loro regioni, assieme ai loro portaborse e segretari, avranno un costo (attualmente non prevedibile).
Anche in questo caso possiamo notare un tentativo di gonfiare i dati a esclusivo vantaggio dei riformatori, evitando di far cadere l’attenzione dei cittadini su questioni ben più spinose, della riforma e dei costi della politica, che non vengono mai veramente affrontate.
Punto 5: la riforma del titolo V
Altro punto importante della riforma è la modifica del rapporto tra Stato e regioni, tranne che per quelle a statuto speciale (occasione storica persa, secondo alcuni, di eliminare differenze tra regioni, sfruttate a vantaggio dei politici locali, non più accettabili oggi).
Le nuove regole prevedono un accentramento dei poteri e delle competenze allo Stato centrale, con l’intento di snellire certe procedure, sopprimendo le funzioni dette a “competenza concorrente” (ossia ciò che è di competenza sia dello Stato che delle Regioni) ambiguità che aveva portato dal 2001, anno dell’ultima malfatta riforma del titolo V, ad una grande quantità di ricorsi capace di ingolfare l’attività della Corte Costituzionale, con inevitabili ritardi nel decidere su questioni importanti a livello nazionale (ad esempio la gestione delle vie di comunicazione, la questione energetica, il raccordo finanza pubblica – finanza regionale ecc).
Nella riforma è stata inserita la cosiddetta clausola di “supremazia”, attraverso la quale lo Stato può intervenire in materie non riservate alla sua legislazione per tutelare “l’interesse nazionale.”
Tuttavia, secondo alcuni (vedi ad esempio qui), aggiungere le dizioni vaghe “di competenza nazionale”, “di interesse regionale” ecc. non basta per stabilire effettivamente cosa sia o non sia tale e anche i nuovi articoli dunque presentano un deficit di chiarezza e di precisione che prelude a nuovi ulteriori contenziosi tra lo Stato e le Regioni, rischiando paradossalmente di mortificare proprio l’autonomia degli enti locali in nome della quale gli attuali riformatori hanno ritenuto necessario trasmutare il Senato in camera rappresentativa degli enti territoriali.
Alcune considerazioni conclusive (e provvisorie)
Forse sarebbe stato più appropriato “spacchettare” il quesito referendario, per permettere ai cittadini di votare separatamente e con maggiore consapevolezza le varie parti della riforma, tra loro molto disomogenee. Ma il Tribunale Civile di Milano ha deciso che si può votare tutto in un unico quesito perché ciò non lede il diritto di opinione dei cittadini, e bisogna prenderne atto. Alcune di queste segnano anche un progresso e sono molto condivisibili – ad esempio l’obbligo del parlamento di legiferare in merito alle leggi di iniziativa popolare, oppure l’abbassamento del quorum dei referendum per i quali sono state raccolte 800.000 firme, o la soppressione di enti inutili come il CNEL – ma mi risulta difficile comprendere come si possa votarli assieme a quesiti relativi a questioni ben diverse nella loro sostanza e inoltre abbastanza complicate da essere lontane dalle possibilità di comprensione del cittadino medio, che non dovrebbe essere certo un esperto giurista per poter capire le decisioni che vengono prese dai politici in merito alla nazione in cui vive.
Il Tribunale di Milano sostiene che «in una riforma costituzionale di ampio respiro, come possono essere revisioni della Costituzione interessanti più articoli e più titoli, il referendum nazionale non potrà che riguardare la deliberazione parlamentare nella sua interezza, non potendosi disarticolare l’approvazione o il rigetto di un testo indiviso alla sua fonte, le cui diverse parti sono in rapporto di reciproca interdipendenza». Per il Tribunale, infatti, «deve essere tenuto presente che le disposizioni di una legge di revisione, ancorché quest’ultima si occupi di articoli della Costituzione fra loro diversi e regolanti materie potenzialmente non omogenee, non possono per ciò stesso ritenersi prive di interconnessione».
È una spiegazione che ancora non mi convince appieno, soprattutto nel collegamento logico stabilito tra l’appartenenza degli articoli ad un unico testo costituzionale e la loro interconnessione necessaria, visto che la loro disomogeneità è riconosciuta.
Detto ciò, vorrei concludere soffermandomi sul carattere criptico della lingua usata nello scrivere i nuovi articoli della Costituzione, uno su tutti il nuovo articolo 70, pieno di rimandi ad altri articoli e commi, con un iniziale lunghissimo periodo di ben 11 righe (da leggere tutte d’un fiato!) e con una scarsa chiarezza dei referenti nelle frasi. Tale oscurità testimonia o un’inaccettabile incapacità dei riformatori di esprimere chiaramente il proprio pensiero – cosa che può essere indice di scarse competenze linguistiche e di difficoltà a strutturare logicamente il proprio pensiero – oppure l’intento di generare appositamente un’ambiguità nelle norme per poterle poi aggirare o rendere in qualche modo strumentalmente interpretabili.
Si passa così, nella vita politica attuale, dal linguaggio ipersemplificato delle slides, sdoganate anche in ambito politico, a quello sibillino di alcuni articoli della riforma; due fenomeni solo apparentemente opposti, perché si tratta in realtà di manifestazioni del medesimo tentativo di nascondere porzioni di verità scomode ai cittadini che vogliono capire. Una strategia comunicativa tipica del marketing, giocata sull’ambiguità o sul creare un alone di emozioni, positive o negative, attorno ad un certo “prodotto politico” da vendere o da scartare. Ad esempio, affiancando al politico che propone il suo prodotto personaggi popolari e vincenti (cosa avvenuta anche di recente) o associando ripetutamente, per semplice contiguità temporale, il voto a scelte politiche accattivanti per larghi strati della popolazione (come il ricevere aumenti in busta paga, sussidi, bonus ecc).
Queste associazioni più o meno esplicite, un po’ come accade nella pubblicità in cui i prodotti da vendere vengono legati a immagini di corpi attraenti, a contenuti sessuali, a contenuti in generale piacevoli, hanno lo scopo di spingere lo spettatore all’acquisto di quanto proposto dallo spot, ma non seguendo la strada di un convincimento razionale attraverso spiegazioni esplicite e chiare di quanto proposto, bensì creando nello spettatore una predisposizione emotiva favorevole di cui magari non si rende nemmeno conto.
Un linguaggio di questo tipo è il sintomo di una profonda perversione della comunicazione politica a fini personali e propagandistici cui assistiamo in modo spregiudicato già da diversi anni. Un fenomeno tanto più grave quanto più è applicato a questioni delicate come le riforme istituzionali di un paese.
La comunicazione politica non impegna più le proprie energie per avvicinare i cittadini alla comprensione di contenuti difficili e scelte rilevanti, ma per abbindolarli attraverso vecchie tecniche desunte dal comportamentismo e fatte proprie dalla pubblicità. Lo psicologo sperimentale Pavlov, agli inizi del XX secolo, faceva salivare i cani dei suoi esperimenti al semplice suono di un campanellino, dopo averlo associato ripetutamente al cibo, tanto da farne un anticipatore indipendente del piacere del pasto. A noi il compito di stare in guardia, con tutte le risorse cognitive e culturali di cui disponiamo, contro i tentativi di questa nuova politica pavloviana.
Fonte: Tysm.org
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