di Marica Di Pierri
La clamorosa elezione del tycoon Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d'America avrà forti ripercussioni sull'impegno del paese in materia ambientale e climatica. Le dichiarazioni di Trump in campagna elettorale, tese a tranquillizzare le major Usa dei combustibili fossili, rischiano infatti di ostacolare il già difficile cammino dell'Accordo di Parigi. Appena due mesi fa, all'inizio di settembre, durante il G20 di Hangzhou, Obama e il Presidente Cinese Xi Jinping avevano ratificato l'accordo mettendo fine a decenni di tiro alla fune tra le due potenze.
La ratifica da parte degli Usa è stata salutata come un passo storico, per un paese che - pur essendo stato per decenni il maggior inquinatore mondiale - si è sempre ben guardato dall'assumere impegni vincolanti a livello internazionale. Basti ricordare che gli Usa non hanno mai ratificato Kyoto e che il loro impegno in materia di riduzione delle emissioni è sempre stato debole e marginale quando non nullo.
La ratifica da parte degli Usa è stata salutata come un passo storico, per un paese che - pur essendo stato per decenni il maggior inquinatore mondiale - si è sempre ben guardato dall'assumere impegni vincolanti a livello internazionale. Basti ricordare che gli Usa non hanno mai ratificato Kyoto e che il loro impegno in materia di riduzione delle emissioni è sempre stato debole e marginale quando non nullo.
Il cambiamento di passo dell'amministrazione Obama, passato anche attraverso decisioni importanti come la rinuncia al mega oleodotto Keystone XLo la moratoria delle estrazioni petrolifere in mare, salutato con favore dalla comunità internazionale, rischia - con l'elezione di Trump - di divenire una breve parentesi. Stesso destino rischia di avere l'Accordo di Parigi: contro il quale Trump ha più volte tuonato, promettendo: "se sarò eletto, lo cancelleremo".
Imperativo: salviamo il carbone.
Uno dei gruppi di sostenitori che ha contribuito a determinare la vittoria di Trump è stato quello dei minatori. Nonostante gli Stati interessati dalle attività minerarie siano a tradizione democratica e nonostante la storica vicinanza tra il sindacato dei minatori e il partito democratico, nel corso della campagna presidenziale l'appoggio della categoria si è massicciamente spostato verso il magnate repubblicano.
Durante la corsa per la nomination repubblicana, Trump si aggiudicò in West Virginia oltre il 70% dei voti repubblicani grazie alla promessa di massicci e nuovi investimenti sull'estrazione di carbone: "I minatori torneranno ad essere fieri di fare i minatori". Da allora, e ancor più dopo la sua nomination alla casa bianca, le lobby del carbone e i gruppi di interesse presenti soprattutto in Kentucky, Pennsylvania, West Virginia, Ohio e Tennessee hanno finanziato cospicuamente la campagna di Trump, schierandosi apertamente per la sua elezione.
Poco importa che, come ripetono gli analisti, l'industria del carbone sia in crisi da molti anni e non certo per le politiche di Obama: è stato soprattutto il boom dell'estrazione di gas e petrolio nei giacimenti non convenzionali a far pendere l'ago della bilancia energetica statunitense dal carbone allo shale gas.
Il piano energetico di Trump: cancellare l'Accordo di Parigi
Nel secondo dei tre confronti televisivi con Hillary Clinton, Trump aveva parlato della sua visione dell'energia spiegando "le energie rinnovabili non bastano, bisogna puntare sul carbone pulito ed evitare che le norme a tutela dell'ambiente limitino eccessivamente le industrie americane". A chi, ricordandogli l'enorme carico contaminante del combustibile fossile in termini di emissioni di Co2, gli chiedesse quale fosse la definizione di "carbone pulito" l'allora candidato non aveva saputo dare alcuna convincente risposta.
Trump ha inoltre più volte dichiarato di essere a favore della costruzione dell'oleodotto Keystone XL, cui l'amministrazione Obama aveva rinunciato. Si tratta di una mega infrastruttura energetica che avrebbe dovuto connettere la regione dell'Alberta, in Canada, e le raffinerie del Sud degli Stati Uniti, per il trasporto del petrolio estratto dalle sabbie bituminose canadesi.
L'oleodotto avrebbe dovuto essere lungo circa 6.000 km. La parte che dall'Alberta arriva in Illinois è già stata costruita. La parte finale invece, di circa 2.000 km, che avrebbe dovuto arrivare in Texas attraversando Montana, Sud Dakota, Nebraska, Kansas e Oklahoma è stata stoppata da Obama all'inizio del 2015. Secondo Trump gli 800.000 barili di bitume al giorno che arriverebbero negli Usa sono invece irrinunciabili per la politica energetica a stelle e strisce.
Non stupisce che il piano energetico di Trump sia stato elaborato con l'aiuto del magnate del fracking Harold Hamm, che adesso è in pole position per la nomina al vertice del DOE, Dipartimento dell'Energia. La linea di Hamm è chiara: nuovi pozzi, sfruttamento intensivo dei giacimenti non convenzionali, allentamento delle normative ambientali. In questo modo intende assicurare al paese l'agognata indipendenza energetica. Nel frattempo però molte compagnie statunitensi sono sull'orlo del fallimento a causa della caduta dei prezzi del petrolio e agli elevati costi del fracking.
L'agenda dei primi 100 giorni di governo
Nei primi 100 giorni di attività Trump prevede di compiere le seguenti azioni in ambito energetico:
Revocare le decisioni assunte da Obama in materia, tra cui il Piano d'Azione per il Clima e il Clean Water Rule
Salvare l'industria del carbone
Chiedere al Canada di rinnovare la richiesta di autorizzazione per l'oleodotto Keystone XL
Abolire la moratoria sullo sfruttamento dei combustibili fossili nelle aree federali
Revocare le norme che impongono restrizioni ingiustificate sulle nuove tecnologie di perforazione (ovvero dei metodi estrattivi non convenzionali)
Cancellare l'accordo di Parigi
Cancellare tutti i pagamenti statunitensi per i programmi Onu contro il riscaldamento globale
Un programma di azione che, comprensibilmente, è stato criticato da più parti, non solo negli Stati Uniti, ma anche a livello internazionale.
Del resto, le assurde opinioni espresse da Trump sui cambiamenti climatici avevano tenuto più volte banco nel dibattito pubblico americano. Dopo averli considerati "un'invenzione dei cinesi per rendere meno competitiva l'industria manifatturiera statunitense", il neo presidente aveva rettificato la sua posizione, chiarendo che si trattava comunque di un "problema fasullo".
Trump ha accusato le politiche ambientali della Casa Bianca e dell'EPA di causare maggior povertà tra i cittadini ed ha contestualmente attaccato le fonti rinnovabili: l'energia solare sarebbe troppo costosa per essere una alternativa credibile e le turbine eoliche ucciderebbero troppi rapaci. In effetti l'attenzione riservata dal tycoon per le energie rinnovabili è sempre stata marginale e tutta incentrata sulla necessità di dare massima libertà all'iniziativa privata evitando forme di sussidio pubblico.
La lotta ai cambiamenti climatici nell'era Trump
In definitiva, l'elezione di Trump alla Casa Bianca rischia di mettere la pietra tombale, oltre che su una cultura di integrazione e sulla faticosa ricostruzione di un minimo di stato sociale, anche sulle politiche di contenimento delle emissioni di carbonio imposte dall'EPA - Environmental Protection Agency nell'era di Obama.
Uno scenario questo che desta enorme preoccupazione e che giunge proprio nel momento in cui un'azione globale per il clima - seppur con tutti i limiti ancora da superare - sembrava vicina come mai prima. I leader del mondo riuniti a Marrakech per la Cop22 Onu sui cambiamenti climatici, a pochi giorni dall'entrata in vigore anticipata dell'Accordo di Parigi, hanno un nuovo grande ostacolo di cui occuparsi: l'elezione alla casa Bianca di un uomo portatore di una visione pericolosa, arretrata e suicida per i destini non solo dell'America, ma dell'intero pianeta.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autrice
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