di Lea Melandri
Le ragioni che hanno portato alla vittoria una destra pericolosa – quella di Donald Trump – erano già comparse, con prospettive ben diverse, in movimenticome i “No Global”, “Il popolo di Seattle” (1999) e “Occupy Wall Street” (2011). Che attenzione hanno avuto dal parte del “partito democratico”, degli intellettuali progressisti, del governo staunitense? Se invece di versare inutili lacrime e rabbiosi insulti provassimo a ricostruire* percorsi di “insubordinazione creativa”, tornare a muovere l’immaginazione verso un “reale” e “possibile” che è emerso proprio dalla crisi della politica tradizionalmente intesa, separata dalla vita, piegata alle logiche di un potere che oggi appare più scoperto nelle sue radici sessiste, razziste, nazionaliste, xenofobe, ecc.?
“La nozione di un futuro di riscatto rimane l’unico modo con cui possiamo dare senso al presente – scrive David Graeber nel suo libro La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo (Manni, Lecce 2012) – e come tale non può scomparire”. Ma per ridare slancio all’immaginazione e rendere meno appannata la prospettiva del tempo a venire, è necessario che con lo stesso ottimismo si riconosca ciò che è stato “reale” e “possibile” nel percorso che ci sta alle spalle.
“Il problema è che non abbiamo preso coscienza delle battaglie che abbiamo vinto”. E la memoria da recuperare sotto una luce di speranza va, per Graeber, al movimento antinucleare della fine degli anni Settanta, alle manifestazioni “che hanno tolto legittimità all’idea stessa di energia nucleare, sensibilizzando l’opinione pubblica” e fatto crescere “l’interesse per il risparmio energetico, le energie rinnovate”, ma anche ad altre vittorie contro i colossi del capitalismo neoliberista: le proteste di Seattle, il blocco del Fondo Monetario Internazionale e della Wto, le grandi mobilitazioni di Praga e di Genova.
È vero che i movimenti che abbiamo conosciuto finora irrompono e si espandono con una rapidità incredibile sulla scena mondiale, ma altrettanto velocemente si eclissano. Delegittimato nei suoi aspetti più selvaggi, il sistema al contrario sembra agli occhi dei “rivoluzionari” potenziarsi, inglobando idee, comportamenti, simboli, sogni un tempo “sovversivi”. La prova che si tratti di un “ragionamento assurdo”, Graeber – con sorpresa di chi è abituato alla smemoratezza o all’indifferenza dei movimentisti nostrani di ogni epoca e specie – la vede nel femminismo:
“Il femminismo è stato sicuramente una forza rivoluzionaria: che cosa c’è di più radicale che rovesciare migliaia di anni di oppressione di genere che giace nel cuore stesso di quella che si ritiene essere la natura umana?”.
Nella prospettiva che il capitalismo nel giro di una generazione non esista più – come si desume dalla impossibilità di “tenere acceso un motore in perpetua crescita su un pianeta dalle risorse limitate”-, non c’è scelta più realistica che impedire al denaro, alle promesse di crescita, alle spirali di debito fuori controllo, di distruggere la capacità di pensare scenari alternativi.
Ritornano con forza, nel saggio di Graeber e nell’ “azione diretta” di un movimento sociale radicale come Occupy Wall Street di cui è uno dei riferimenti teorici più noti, gli slogan che nel ’68 hanno cambiato l’idea stessa di politica – “tutto il potere all’immaginazione”, “sii realista, pretendi l’impossibile”-, reinventando la vita quotidiana, a partire dal rapporto tra i sessi, creando nuove strutture democratiche. Non è un caso che il pericolo maggiore per ogni ordine esistente sia rappresentato da quegli atti di “insubordinazione creativa” che aprono squarci in una realtà che sembrava prima immobile. Nel tentativo di ridefinire termini come realismo, immaginazione, alienazione, il riferimento più radicale e innovativo sembra che sia ancora l’esperienza del movimento delle donne.
In particolare, è con la messa al centro della soggettività che il femminismo ha dato avvio a un’analisi del potere più articolata e complessa, più attenta ai processi invisibili attraverso cui le disuguaglianze sistemiche producono invariabilmente “strutture asimmetriche di identificazione immaginativa”. Se le donne hanno ancora così poca autonomia rispetto alla visione maschile del mondo, è perché in una condizione secolare di sottomissione, mancanza di risorse economiche proprie e di istruzione, non hanno avuto come alternativa che occupare le proprie energie “a cercare di capire cosa stanno pensando gli uomini nelle loro esistenze così importanti”.
“Generazioni di autrici di romanzi hanno documentato il lavoro costante che le donne mettono in atto per gestire, conservare e rafforzare l’ego di uomini spesso inconsapevoli; un lavoro che implica un infinito sforzo di immaginazione ed identificazione”.
Questo tipo di violenza invisibile, che ha il suo fondamento nella famiglia patriarcale, vale per qualsiasi rapporto tra coloro che stanno in basso, costretti a immaginare le prospettive di quelli che sono in cima. Il contrario non accade quasi mai.
Le analogie, le consonanze, le linee di continuità col femminismo che Graeber va ricostruendo, compaiono quasi in ogni capitolo del libro: l’orizzontalità dei rapporti, la creazione di nuove forme decisionali collettive – consigli, assemblee, attenzione infinita al “metodo” -, e soprattutto la consapevolezza che “le situazioni non si creano da sole”.
“Di solito bisogna fare appello ad un generale impegno. Per gran parte della storia dell’uomo i fenomeni politici sono stati intesi essenzialmente come una serie di performance drammatiche su palcoscenici teatrali. Uno dei più grandi regali del femminismo al pensiero politico è stato quello di continuare a ricordarci delle persone che hanno il compito di costruire, preparare e ripulire quei palcoscenici e preservare le strutture che li rendono possibili, persone che per la maggior parte sono donne. Il normale processo politico è naturalmente quello di fare sparire queste persone”.
L’importanza del lavoro delle donne – scrive Graeber – ha avuto un riconoscimento tardivo, ma si può partire da lì, da quella che è stata “la forma più importante di sforzo umano in ogni società per fare figli e stabilire relazioni sociali” per ripensare le categorie marxiste.
“Una delle caratteristiche peculiari del capitalismo è che ci incoraggia a percepire la produzione di beni come la principale occupazione dell’esistenza umana, mentre le relazioni interpersonali diventano in un certo senso secondarie”.
Se il neoliberismo è stato il movimento che è riuscito a convincere tutti che la crescita economica era l’unica cosa importante, dalla storia dei movimenti libertari, e fra questi prioritariamente il femminismo, viene l’idea – resa oggi reale e possibile dalla crisi del modello capitalistico e patriarcale di sviluppo – che necessario è prima di tutto avere “tempo per vivere”, ritrovare la capacità di immaginare altri valori, cominciare a costruire un “futuro di redenzione” in qualsiasi momento.
Fonte: comune-info.net
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