di Antonio Sciotto
La metà della spesa destinata agli 80 euro viene erogata a famiglie con redditi medi e medio-alti, mentre solo un terzo ha beneficiato i nuclei più poveri. Il dato viene dall’Istat, ieri in audizione al Senato. L’istituto di statistica ha disegnato un quadro generale sul welfare e l’assistenza alle fasce deboli della popolazione italiana, rilevando che mentre aumentano ad esempio i minori in povertà assoluta, dall’altro lato gli strumenti di integrazione al reddito (come può essere considerato lo stesso bonus renziano) in molti casi sbagliano la mira e vengono anche cumulati con altri sussidi.
«Solo un terzo della spesa totale per il bonus è destinato a beneficiari che vivono in famiglie collocate nei due quinti più poveri della distribuzione del reddito, mentre metà della spesa viene erogata a dipendenti che vivono in nuclei con redditi medi e medio-alti», ha spiegato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva illustrando le stime di microsimulazione sugli effetti degli 80 euro nel 2015.
In generale l’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, «spende sistematicamente meno per la protezione» dei «deboli», spiega l’istituto, chiamato a dire la sua sul ddl lavoro e sul riordino delle prestazioni sociali. Secondo Alleva, nel 2015 «la quota di spesa pubblica destinata all’assistenza in Italia rappresenta circa il 10% (10,1%) del totale delle spesa in prestazioni di protezione sociale», ma «al netto del bonus 80 euro, l’incidenza della spesa pubblica assistenziale sarebbe dell’8,2%». «D’altra parte – spiega il presidente Istat – le misure previste dal sistema socio-assistenziale sono solo in parte finalizzate al contrasto della povertà e non si rivolgono esclusivamente a individui in condizioni di difficoltà economica, avendo anche altre finalità».
Si spende poco, insomma, e male, se può accadere che «con una certa frequenza, in capo a uno stesso beneficiario, vi sia il cumulo di più prestazioni», quindi con sussidi doppi o multipli. E il fenomeno non è marginale: secondo l’Istat riguarda il 19% del totale dei beneficiari delle prestazioni prese in esame (assegni sociali, pensioni invalidità civile o accompagnamento), pari a poco meno di 1 milione di persone.
Ovvio che se si tratta di nuclei poveri, sommare più prestazioni (in genere di per sé basse), non si tratta di soldi mal spesi, ma più in generale da tempo si chiede di legare più strettamente le prestazioni al reddito Isee della persona (anche in rapporto al suo inserimento in un nucleo familiare di più unità). Richiesta ribadita ieri dall’Unione nazionale consumatori: «Si dovrebbero commisurare tutti i bonus elargiti in base al reddito Isee, dal bonus di 80 euro alla quattordicesima, dal bonus bebè a quello per gli asili nido».
In Italia 4,6 milioni di persone nel 2015 vivono in condizioni di povertà assoluta, pari al 7,6% della popolazione. Nell’ultimo decennio il dato più basso risale al 2006, quando gli individui in difficoltà erano 1,8 milioni; confrontando i due numeri risulta un incremento del 177%.
Allarmante anche il dato relativo ai «minori in condizione di povertà assoluta»: sono, sempre stando ai dati del 2015, «1 milione 131 mila», «quasi l’11% di quelli residenti nel nostro Paese». «Il numero di minori poveri assoluti – spiega l’istituto di statistica – risulta oltre il doppio rispetto a quello stimato nel 2011 (523 mila; il 5% del totale) e triplo rispetto a quello del 2008 (375 mila; il 3,7%)». Rispetto a dieci anni fa (2006) il loro numero si è incrementato del 298,2%.
E i sussidi non aiutano a uscire dalla condizione di povertà: l’Istat fa notare che «nonostante l’assegno per il nucleo familiare concesso dai Comuni alle famiglie con tre o più figli minori venga erogato a oltre 234 mila beneficiari, il 18,3% delle famiglie di questa tipologia (143 mila) continua a essere in povertà assoluta, per un totale di quasi 183 mila minori». Senza contare che le stesse risorse destinate dai Comuni alle spese sociali si sono ridotte costantemente a partire dal 2009, e con maggiore intensità dal 2011 in poi, a causa del patto di stabilità interno: «Dal 2011 al 2013 – conclude l’istituto – la decrescita è compresa fra 1 e 2 punti percentuali ogni anno».
Fonte: Il manifesto
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