di Paolo Graziani e Marco Almagisti
Trump ha vinto. Nel giro di una notte siamo passati da un presidente in pectore donna, la prima, al governo del più influente paese del mondo, ad un presidente incarnato da un ricco imprenditore, fallito un certo numero di volte, accusato di sessismo, ma capace di entrare in sintonia con le emozioni dei perdenti – in particolare, di chi ha smarrito il proprio senso di identità nel contesto globalizzato. È un fenomeno mondiale, ma che nel contesto americano prende le mosse dall’incapacità del governo Obama di operare in modo incisivo sulle disuguaglianze economiche e identitarie. Si riproduce la dinamica manifestatasi in occasione del «Brexit».
Gli «sconfitti» della globalizzazione si ribellano ad un discorso paternalista e rassicurante circa le sconfinate virtù della globalizzazione: la realtà delle lavoratrici e dei lavoratori, in Inghilterra così come negli Stati uniti, è lontana anni luce dalla «narrazione» democratica (negli Usa) o socialdemocratica (in Europa). Su questo fronte, l’unico che era riuscito a smuovere le acque, suscitando entusiasmo e speranze di profondo cambiamento è stato Bernie Sanders: peccato che non fosse in linea con l’establishment del partito democratico che, continuando a ragionare secondo schemi politici che non reggono davvero più a nessuna prova, l’ha bollato come estremista e troppo lontano dal comune sentire degli americani. E ciò ha reso impossibile la sua nomination.
Gli «sconfitti» della globalizzazione si ribellano ad un discorso paternalista e rassicurante circa le sconfinate virtù della globalizzazione: la realtà delle lavoratrici e dei lavoratori, in Inghilterra così come negli Stati uniti, è lontana anni luce dalla «narrazione» democratica (negli Usa) o socialdemocratica (in Europa). Su questo fronte, l’unico che era riuscito a smuovere le acque, suscitando entusiasmo e speranze di profondo cambiamento è stato Bernie Sanders: peccato che non fosse in linea con l’establishment del partito democratico che, continuando a ragionare secondo schemi politici che non reggono davvero più a nessuna prova, l’ha bollato come estremista e troppo lontano dal comune sentire degli americani. E ciò ha reso impossibile la sua nomination.
Ora sappiamo che, senza Sanders, il «comune sentire» della maggioranza degli elettori statunitensi è impersonificato da Donald Trump. Cosa ha da offrire Trump? Una narrazione populista, fatta di leadership personalistica e messaggi semplici – e più rassicuranti, indirizzati senza tentennamenti verso il «vero popolo» dell’America profonda. L’America esclusa dalle magnifiche sorti progressive del neoliberismo e della globalizzazione. Leadership personalistica e messaggi semplici: la ricetta che, altrove, ha portato al trionfo altri leader quali Berlusconi e Farage, e in un futuro non troppo lontano potrebbe far trionfare anche un rappresentante della famiglia Le Pen in Francia.
In Italia non stupisce che il Movimento Cinque Stelle a ridosso del voto non abbia preso una chiara posizione sulla contesa presidenziale Usa, salvo poi esultare dopo l’affermazione di Trump: vista la vocazione populista del movimento, diversi suoi rappresentanti hanno visto in lui un outsider da guardare se non con aperta simpatia, certamente senza ostilità. Il populismo di per sé non è un male: dovrebbe essere prima di tutto una categoria analitica.
Il populismo può avere diverse facce: anche Podemos e Syriza possono essere considerati populismi, ma di tutt’altra fattura rispetto a Trump e in parte al M5S. In Spagna e in Grecia si sta sviluppando un populismo «inclusivo» che poco ha a che spartire col populismo «esclusivo» di marca lepenista o trumpiana. Il populismo che ha trionfato ieri notte è sicuramente esclusivo, fortemente chiuso alla voce delle minoranze. E non basta dire che il popolo americano ha voltato le spalle a Hillary Clinton. La sua candidatura era molto problematica: da un lato, è stata nell’amministrazione (e nella politica) statunitense troppo tempo per rappresentare una scelta di cambiamento; dall’altro, nella sua attività di governo, non ha mai brillato per particolare lungimiranza politica – come testimoniano le sue discutibili iniziative in politica estera.
Che fare? Rimboccarsi le maniche, ovunque, e cercare di uscire dalla deriva personalistica e priva di contenuti di reale cambiamento per avviare un dialogo con le tante persone – negli Stati uniti e in Europa – che chiedono prima di tutto di essere ascoltate e di appartenere ad una comunità politica invece sempre più chiusa e autoreferenziale. Per fare questo le forze progressiste debbono rimettere al centro le questioni sociali: lavoro, sicurezza, lotta alle disuguaglianze. Le rivendicazioni dei diritti delle minoranze devono tornare ad intrecciarsi a tali questioni, per troppo tempo sottovalutate. Il successo del populismo esclusivo è una storia che non riguarda solo gli Usa. Può riguardare molti, potenzialmente tutti i paesi europei in un futuro prossimo. C’è tantissimo lavoro da fare per rifondare un campo realmente democratico e progressista in modo inclusivo e incisivo. L’alternativa è il trionfo di tutti i Trump possibili.
Fonte: Il manifesto
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