di Andrea Colombo
Se mai si dovesse scegliere un solo libro per raccontare cosa è stata la generazione rivoluzionaria del tardo Novecento, quali sentimenti la animavano, come pensava e come viveva, quel libro sarebbe Amore e Lotta (Mimesis, pp. 396, euro 26.00) di David Gilbert, pubblicato nel 2011 e tradotto ora da Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia. Per quanto straordinariamente folta sia la pubblicistica in materia, forse nessun testo riesce a rendere lo spirito ribelle di quei tempi con la completezza e la vivacità, dunque con la veridicità, di questa autobiografia di un rivoluzionario in carcere da 36 anni.
Gilbert è stato arrestato il 20 ottobre 1980, dopo una rapina a un furgone blindato della Brinks finita con due poliziotti e una guardia di sicurezza uccisi. Il commando era composto da 6 membri della Black Liberation Army e da quattro ex militanti degli Weathermen Underground, tra cui Gilbert e la sua compagna Kathy Boudin, con la quale aveva appena avuto un figlio. Kathy Boudin è stata liberata nel 2003. Oggi, oltre a essere ancora impegnata politicamente , è professoressa alla Columbia.
Del movimento dei ’60 e ’70 Gilbert registra e rievoca tutto: il fermento oggi quasi non immaginabile e la speranza altrettanto desueta, le ingenuità, le contraddizioni, le ragioni oggi negate, gli sbagli invece sempre ricordati ed esaltati. Descrive una parabola comune, nonostante le differenze tra Paese e Paese, a buona parte di quella generazione politica: le origini nella middle class, in questo caso una famiglia ebrea «progressista», il passaggio da un’appartenenza liberal ingenuamente ottimista al radicalismo rivoluzionario, veicolato nel suo caso dalla conoscenza diretta del colonialismo interno ad Harlem e poi dal Vietnam.
Gli anni del movimento montante, con quell’amalgama tra comunismo e spinta libertaria, tra marxismo e rock’n’roll, che a riguardarla pare impossibile e invece, per qualche miracolo irripetibile, per un po’ riuscì a funzionare.
Il percorso politico di Gilbert e dell’Sds, l’organizzazione radicale dalla quale sarebbero nati gli Weather, si sviluppa e muta nel tempo. La condizionano e ne modificano i tratti essenziali il rapporto con il Black Panther Party, individuato come soggetto guida del Movimento rivoluzionario, poi quello con il femminismo che costringe tutti a fare i conti con se stessi.
Non è una storia solo americana: il tentativo di coniugare la militanza rivoluzionaria con uno stile di vita coerente sarebbe stato siglato qualche anno più tardi, da noi, dallo slogan «Il personale è politico». Il dibattito tra il militarismo di chi scommetteva sull’egemonia del soggetto armato e il movimentismo di chi voleva invece mettere le armi al servizio del movimento di massa è identico a quello che si svolse anche in Italia.
Per altri versi però è una storia americana: negli Usa il Movimento si trovava nel cuore dell’impero e dovette misurarsi subito con l’assenza di una soggettività operaia combattiva. Gilbert applicava quindi una rivisitazione in chiave fortemente terzomondista del marxismo, che accentuava la valenza delle lotte di liberazione nazionale e, sul piano interno, puntava soprattutto sulla guerra delle minoranze contro il colonialismo interno.
Gli Weather tentarono di ovviare alla assenza di una sponda nella maggioranza bianca individuando nei giovani in quanto tali un soggetto rivoluzionario in sé. L’illusione ottica poteva essere comprensibile nell’epoca breve della Woodstock Nation, ma si sarebbe presto rivelata esiziale. La fine della guerra del Vietnam, dopo che il Black Panther Party era stato sgominato dalle esecuzioni e dalle manovre torbide del Cointelpro (Counter Intelliogence Program), segnò il tramonto della spinta rivoluzionaria. Gilbert e Kathy Boudin furono tra quelli che non si arresero e tentarono di proseguire la lotta armata, in un contesto segnato dalla sconfitta. Non si sono arresi neppure oggi. Il libro di Gilbert non è una memoria nostalgica ma la testimonianza di un rivoluzionario convinto che la battaglia sia tutta ancora aperta e che pertanto ritiene fondamentale imparare dagli errori.
Gli Weather sono stati il grande rimosso della storia americana recente. Per gli Usa il trauma di un gruppo rivoluzionario bianco che per la prima volta prendeva le armi contro lo Stato fu profondissimo. Dopo oltre vent’anni di silenzio ne avevano iniziato a parlare, da punti di vista opposti, Philip Roth e Stephen King rispettivamente in Pastorale americana e Cuori in Atlantide. Molto più specifico il bellissimo romanzo di Neil Gordon La regola del silenzio-The Company You Keep, del 2003, portato sullo schermo da Robert Redford 9 anni dopo.
La svolta è arrivata col film-documentario del 2002 The Weather Underground, candidato all’Oscar . Da quel momento la vicenda degli Weather ha cominciato a emergere dal sottosuolo in cui era stata sepolta. Molti leader erano già liberi, soprattutto perché le prove contro di loro erano state raccolte in modo illegale nel quadro del Cointelpro. Nel 2009 Bill Ayers, uno dei principali leader dell’organizzazione, ha pubblicato Fugitive Days, tradotto in italiano qualche mese fa da Derive/Approdi, poi anche David Gilbert, su spinta del figlio Chesa Boudin, ha accettato di raccontare la sua storia. Adesso che la vicenda degli Weather è uscita dall’oblio, sarà ora che qualcuno chieda di far uscire di galera anche David Gilbert?
Fonte: Il manifesto
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