di Andrea Colombo
«Donald Trump siamo noi, e tutti gli altri, le cariatidi che si ribellano alla rottamazione, sono Hillary Clinton»: l’ordine di scuderia che parte dai piani alti del Nazareno è questo. Si può star certi che, sia pur in forma meno sfrontata, sentiremo ripetere il ritornello fino all’esasperazione. Oddio, e Obama, già alleato di ferro e altissimo protettore? La risposta s’impone da sé: «Obama chi?». Mentre il primo passo del nuovo corso donaldiano di palazzo Chigi è folklore puro: la bandiera europea dovrà scomparire dalla sala conferenze stampa di palazzo Chigi, per lasciare il posto solo al tricolore.
Due piccioni con un solo vessillo nel cassetto: una mano di vernice stile Don ma anche un messaggio in codice a quell’Europa che non ha affatto deciso di chiudere gli occhi sui conti ballerini della legge di bilancio. À la guerre comme à la guerre.
Due piccioni con un solo vessillo nel cassetto: una mano di vernice stile Don ma anche un messaggio in codice a quell’Europa che non ha affatto deciso di chiudere gli occhi sui conti ballerini della legge di bilancio. À la guerre comme à la guerre.
Il referendum infatti non è il solo fronte diventato nel giro di una notte molto più fragile. Forse non è neppure il più nevralgico. Anche da quel punto di vista, sia chiaro, palazzo Chigi considera la vittoria a sorpresa dell’outsider un guaio. Alla vigilia erano in molti a dissertare sulla possibilità che una vittoria di Donald Trump seminasse un fecondo panico, il cui raccolto si sarebbe poi visto nelle urne referendarie. Come nelle elezioni spagnole, dove Podemos ha pagato il prezzo della Brexit.
L’illusione è durata poco. La situazione è troppo diversa ed è più probabile che l’effetto Trump agevoli invece il No. Di qui la necessità di «trumpizzarsi» a spron battuto. Però senza stracciarsi troppo le vesti: «Il populismo già c’era, non è certo arrivato sull’onda delle elezioni Usa. Quell’effetto sarà poco influente», ripetono gli ufficiali renziani. Mentre Matteo Renzi, ieri in tour referendario a Pescara, attacca la «vecchia guardia unita solo dall’odio» e che «ha fallito», mentre «il sì equivale a cambiare».
Ma non c’è solo il referendum. L’asse anti-rigore con Barack Obama, destinato a perpetuarsi con la leader che Renzi prevedeva dovesse succedergli, era una delle carte forti da mettere sul tavolo nel corso di una trattativa con l’Europa che è molto più difficile di quanto i nostri governanti non lascino trasparire. Non si può dire che il crollo di Hillary Clinton pregiudichi tutto. L’Italia ha altri argomenti da far valere, in particolare proprio il rischio che l’assalto antisistema parta dalla penisola per poi dilagare. Però è un fatto che Renzi si trovi oggi privo di un appoggio prezioso nel contenzioso con i falchi.
Eppure non è neppure questo il cruccio che più tormenta il premier. Sul referendum il pessimismo è diffuso, ma per Renzi il 4 dicembre non è la mano definitiva. Vuol correre alle elezioni politiche e su quel fronte, almeno per ora, non c’è ombra di pessimismo. Solo che governare, se Trump darà seguito anche a una parte dei suoi impegni elettorali, potrebbe diventare un calvario. Senza il mantello magico a stelle e strisce l’Europa dovrà fare da sola. Dovrà sborsare di tasca propria per finanziare in conflitti in giro per il mondo, come a Mosul. Dovrà far correre sangue.
Storia di domani, certo. Al momento l’urgenza è tutt’altra. Ma basta chiacchierare un po’ con qualche piddino di un certo peso per scoprire che è un incubo già da subito.
Fonte: Il manifesto
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