di Gaspare Jean
Le modifiche della seconda parte della Costituzione costituiscono un pericolo anche per gli articoli novellati nella prima parte a garanzia dei diritti non solo politici e civili ma anche sociali; questo è ampiamente sottolineato in numerosi articoli di giornali e in libri che evidenziano che un esecutivo con così ampi poteri, quali risultano dalla convergenza tra modifiche costituzionali ed Italicum, possa facilmente invalidare tutta una serie di conquiste ottenute nella seconda metà del secolo XX con enormi sacrifici. Già se ne sono visti i prodromi: la manomissione dello Statuto dei lavoratori, della scuola, dei servizi sanitari e sociali a cui vengono tagliati i fondi tanto che la platea dei cittadini che può giovarsi di queste prestazioni si restringe sempre più.
Tutti ricordano che le conquiste sociali del secolo scorso sono state ottenute con lunghe lotte sociali e sindacali; il Parlamento, allora eletto con metodo proporzionale, non poteva essere insensibile più di tanto ai fermenti sociali che chiedevano riforme della legislazione del lavoro, del diritto di famiglia (compreso il divorzio), della scuola, delle politiche sociali e sanitarie, nonché maggiore partecipazione dei cittadini singoli ed associati alla gestione di questi servizi.
È vero che la gestione di equilibri politici più avanzati portava più facilmente alla caduta di governi, però alcune riforme, che hanno modificato la società italiana e il costume, venivano fatte; in altre parole, nelle aule parlamentari si cercavano nuove sintesi politiche che potevano conciliarsi con i fermenti che agitavano la società. Tutto ciò non potrà più avvenire se entrassero in vigore le modifiche costituzionali proposte e l’Italicum; l’attuazione della prima parte della Costituzione sarà impossibile perché mina quella anarchia dei mercati e della finanza nonché il darwinismo sociale sostenuti dal neoliberismo.
Infatti, il neoliberismo non accetta quel compromesso tra forze cattoliche, liberali, socialiste e comuniste che hanno portato a stilare la Costituzione del 1948; la borghesia italiana ed internazionale ritiene che i rapporti di forza tra borghesia e proletariato, esistenti allora, non esistano più; ora è necessario trascinare sempre più il potere politico al servizio di quello economico e quindi modificare quella ridistribuzione della ricchezza che le riforme sociali del XX secolo avevano realizzato.
Tutti questi temi sono bene analizzati dalla stampa; abbastanza tralasciate sono le modifiche del Titolo V della Costituzione che portano elementi di forte novità rispetto al quadro istituzionale in vigere dal 2001. Per la Sanità in particolare viene meno la legislazione concorrente tra Stato e Regioni; il nuovo comma m dell’art. 117 ristabilisce il primato statale nelle decisioni di politica sanitaria; lo Stato non solo determina i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e sociali (LEA e LEAS) ma assume la potestà di progettare “le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e per le politiche sociali”; sembrerebbe che alle Regioni avrebbero solo la competenza di “programmare ed organizzare servizi sanitari e sociali”.
C’è poi la clausola di supremazia, per la quale lo Stato può intervenire ogni qual volta “lo richiede la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. È evidente che si va oltre ad un mero ridimensionamento della autonomia regionale; questo d’altra parte è auspicabile dato che dopo le modifiche costituzionali del 2001 (legge 3/2001):
a) si è perso il carattere universalistico della tutela della salute, previsto dalla riforma sanitaria del 1978; si sono formati 21 servizi sanitari regionali e sono cresciute le differenze tra le prestazioni erogate in una o nell’altra Regione. Particolarmente scaduti sono i servizi sanitari delle Regioni sottoposte a piani di rientro di bilancio.
b) Un aumento degli sprechi e della corruzione che riguarda tutte le Regioni e che, per la Sanità, viene stimato intorno a 6 miliardi di €/anno.
c) Si è resa difficoltosa l’integrazione tra servizi sanitari e sociali dato che la Sanità era oggetto di legislazione concorrente e le politiche sociali di legislazione unicamente regionale.
Tuttavia, per meglio valutare la legge 3/2001, vale la pena di analizzare come sono nate le modifiche del titolo V della Costituzione; alla fine degli anni ’90 i DS si erano proposti di bloccare la Lega Nord con modifiche costituzionali in senso federalista; nasce così una riforma costituzionale che, come l’attuale, era stata approvata dal Parlamento con solo pochi voti, rendendo necessario un referendum confermativo; questo vedeva una partecipazione solo del 35% circa dell’elettorato ed era condizionato fortemente dal desiderio di opporsi a Berlusconi, che sosteneva l’abolizione della legge in chiave anti-DS. Nella campagna referendaria solo PRC approfondiva i contenuti della legge.
Vale anche la pena di ricordare che le modifiche del titolo V della Costituzione tradivano lo spirito dei padri costituenti che pensavano alle Regioni come possibilità di rafforzare il tessuto democratico del Paese e come compensazione nei confronti di quelle Regioni che più avevano sofferto per come era avvenuta la costruzione dell’unità d’Italia.
Invece dopo il 2001 si è assistito ad un rafforzamento del centralismo regionale (in Sanità: minore autonomia organizzativa delle Ussl) e ad una ulteriore penalizzazione delle Regioni più povere (in Sanità: ridimensionamento dell’universalismo del Ssn). Fatte queste considerazioni, il ritorno allo Stato di competenze regionali in campo sociale e sanitario non appare negativo.
Però la “deforma” costituzionale è ambigua in quanto continua a mantenere il potere legislativo delle Regioni; non è difficile dunque prevedere che:
1) aumenterà il contenzioso tra Stato e Regioni, contraddicendo la semplificazione legislativa sbandierata dall’attuale Governo;
2) gli stessi contrasti tra Regioni che attualmente osserviamo nella “Conferenza Stato-Regioni-Autonomie Locali” saranno riprodotte nel futuro Senato;
3) questa ambiguità può generare vuoti legislativi soprattutto per quanto riguarda l’igiene degli ambienti di vita e lavoro, l’integrazione tra servizi pubblici e privato sociale, la sicurezza del lavoro;
4) l’ambiguità è tale che alcuni costituzionalisti paventano che in Sanità, la legislazione concorrente cacciata dalla porta rientri dalla finestra.
A questo proposito è significativo il dibattito che si è sviluppato in questo ultimo anno nella Conferenza Stato-Regioni riguardante le risorse da destinare al Fondo Sanitario Nazionale (FSN). Si era giunti ad un accordo tra Ministero della Salute e Regioni che il FSN doveva essere nel 2016 116 miliardi; questo patto non è stato rispettato tanto che nel 2017 si parla di 113 miliardi (ma secondo le stime del Mef non supererà i 111 miliardi). Il futuro Senato potrà avere la capacità di far rispettare i patti tra Stato e Regioni meglio della attuale Conferenza? NO! E’ previsto che il Senato non avrà il potere di sindacare in materia di Finanza pubblica, annullando così ogni capacità di intervenire concretamente nel rapporto Stato-Regioni.
Il PD nel suo opuscolo che invita a votare SI afferma che queste modifiche istituzionali faranno risparmiare anche perché realizzano “il superamento definitivo delle Province” (320 milioni).
Per quanto riguarda il comparto socio-sanitario, vediamo però una riduzione dei fondi ex provinciali per disabili tanto che i Comuni hanno maggiori difficoltà a garantire il trasporto degli scolari disabili, base per l’integrazione scolastica prevista dalla legge 104; anche i disabili sensoriali (competenza delle ex Province) vedono ridotte le risorse trasferite tanto che l’Istituto dei ciechi di Milano ha serie difficoltà di bilancio.
Ma quali altri risparmi sulle competenze delle ex Province? Mandare in malora l’Idroscalo? Licenziare tutti i precari? Non fare manutenzione sulle strade ex provinciali? Far decollare la città metropolitana di Milano con un bilancio in rosso?
No grazie. Facciamo in modo che la piena attuazione del superamento delle Province non sia questo. In conclusione: non tutti gli articoli della “deforma” costituzionale, riguardanti le Regioni e che interessano la gestione della Sanità, sono di per sé negativi; non risolvono però il contenzioso tra Stato-Regioni e tra Regioni già sperimentato in sede di Conferenza Stato-Regioni-Autonomie Locali (gli specialisti che si sono occupati dell’argomento evidenziano che lo Stato ha impugnato il 75% delle decisioni regionali).
Ambigua è poi la clausola di supremazia dello Stato; infatti se lo Stato non la utilizza si ritorna alla legislazione concorrente; se lo Stato la utilizza, o ne abusa, si ritorna a un centralismo che scardina ogni gestione territoriale della Sanità: chiusura di Ospedali, abolizione di servizi, interferenze sul funzionamento degli stessi. (ad es già la Ministra Lorenzin afferma che i ginecologi non obiettori sono in numero sufficiente per garantire l’applicazione della legge 194).
Altrettanto ambigue sono le modalità con cui il Senato, privo di poteri sulle leggi finanziarie, possa intervenire nel settore sanitario e sociale che operano grazie a trasferimenti dello Stato.
Va infine ricordato che, anche per quanto riguarda la Sanità, le 5 Regioni Autonome non sono oggetto di revisione costituzionale.
Fonte: Il manifesto Bologna
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