La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 30 maggio 2017

Gli ottanta anni della Teoria generale di Keynes: perché è ancora un libro attuale

di Maria Cristina Marcuzzo 
Dopo la crisi del 2007-2008 il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti di cui si raccomanda la lettura e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguire le idee. Dopo un bando durato circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni settanta e ottanta.
Per rivendicare l’attualità della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta voglio partire dall’assottigliamento dello spazio assegnato all’intervento pubblico, nell’opinione economica attuale, quello ‘spazio per la politica’ che Keynes ha aperto con la dimostrazione che il mercato non è sorretto da leggi naturali o immutabili. Lo spirito che ha guidato la rivoluzione keynesiana è che la piena occupazione è un obiettivo possibile da perseguire non lasciandolo libero, ma intervenendo nel gioco delle forze di mercato. Ha ispirato un mondo di politiche di pieno impiego e di welfare state nei paesi avanzati nei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale ed è lontano da quello della restaurazione neo-liberista – il cosiddetto Washington Consensus – in cui sono prevalsi i dogmi dell’individualismo e della de-regolamentazione.
Nel rivendicare l’attualità della lezione della Teoria generale ovviamente non si può non tener conto delle mutate circostanze del contesto attuale, rispetto a venti e ancora di più a ottanta anni fa, anche se le somiglianze tra la Grande Depressione degli anni trenta (vedi Sylos Labini, 2009; Temin, 2010) – il contesto in cui scriveva Keynes – e la crisi attuale sono molte come anche è grande la somiglianza tra la teoria economica pre-keynesiana e quella attuale (vedi Wray, 2013). Il ritorno a Keynes che vorrei auspicare, nell’argomentarne l’attualità e la rilevanza, è innanzitutto sul piano del metodo.
In una famosa lettera a George B. Shaw, pochi mesi prima della pubblicazione della Teoria generale, nel febbraio del 1936, Keynes la annuncia come un libro “che rivoluzionerà enormemente […] il modo in cui il mondo ragiona sui problemi economici” (Keynes, 1973a, p. 492). E nella stessa lettera aggiunge: “quando la mia nuova teoria sarà stata bene assimilata e si mescolerà con la politica e i sentimenti e le passioni […] ci sarà un grande cambiamento” (ivi, p. 493).
Invece di appellarsi alla ‘scientificità’ della sua teoria, Keynes si affida “alla politica, ai sentimenti e alle passioni” per sperare che il suo messaggio venga accolto. Un paio di anni dopo in una lettera, questa volta indirizzata a Roy F. Harrod, richiama l’episodio che si dice abbia dato origine alla scoperta di Newton, mentre osservava una mela cadere dall’albero, per mostrare le domande che l’economista dovrebbe fare. Chiedersi: “se la caduta a terra della mela dipende dai motivi della mela, se alla mela conviene o meno cadere e se la terra vuole davvero che la mela cada, e se la mela calcoli bene o male quanto lontana è dal centro della terra” (Keynes, 1973b, p. 300).
L’economia – spiega Keynes – “ha che fare con l’introspezione e con i valori […], con le motivazioni, le aspettative e l’incertezza psicologica” (ibid.), un ambito di riferimento che non è “né costante né omogeneo”. Non può esserci analogia con le scienze fisiche, perché mentre lo scopo della fisica è di scoprire regolarità da cui derivare leggi generali, quello dell’economia è spiegare decisioni prese in un contesto di incertezza e con gradi diversi di informazione. L’obiettivo che l’economista deve porsi è sviluppare un modo logico di ragionare su elementi che sono “transitori e fluttuanti” (ivi, p. 297).
Quando Keynes nella Teoria generale spiega perché il livello di occupazione oscilla intorno a una ‘posizione intermedia’ al di sotto del livello di piena occupazione e al di sopra di quello corrispondente al minimo di sussistenza (Keynes, 1973, p. 254), chiarisce che questa posizione “è un dato di osservazione che riguarda il mondo così come è o è stato e non un principio necessario che non può essere modificato”.
In economia infatti “non possiamo sperare di fare generalizzazioni completamente accurate”, perché il sistema economico non è regolato da forze naturali che gli economisti devono scoprire. Il compito dell’economista è piuttosto quello di “selezionare le variabili che possono essere deliberatamente controllate e governate da un’autorità centrale nel tipo di sistema in cui viviamo” (ibid.).
La critica di Keynes è rivolta contro la concezione dell’economia come disciplina della società che prende a modello le scienze fisiche, per sostenere che deve diventare un’indagine che cerca di far nascere situazioni desiderabili. Solo svelando la falsa analogia delle cause economiche con le cause fisiche si apre la possibilità per l’economista di promuovere valori e atteggiamenti che possano rendere migliore la società. Scrive Keynes: “sono passate molte generazioni da quando gli uomini individualmente hanno incominciato a impiegare la ragione e la morale al posto del cieco istinto come molla dell’azione. Adesso è arrivato il momento di farlo collettivamente” (Keynes, 1977, p. 453).
Lasciare che gli individui perseguano il proprio interesse personale – come nella parabola di A. Smith dove il benessere sociale è il risultato del perseguimento del profitto individuale, come fa “il macellaio, il birraio e il panettiere”, è un’idea che non ha validità generale, perché non ci sono sempre forze in grado di armonizzare gli interessi individuali e in secondo luogo perché l’esito aggregato del comportamento economico non è lo stesso di quello individuale. Se l’obiettivo è di cambiare il contesto in cui gli individui agiscono e ottenere cambiamenti di atteggiamento bisogna prioritariamente modificare il modo in cui viene visto il problema economico.
A questo risultato Keynes ritiene si possa arrivare usando il potere della persuasione. In una lettera a Thomas S. Eliot del 5 aprile 1945, scrive: “il compito principale è suscitare la convinzione intellettuale e poi intellettualmente trovare i mezzi. Il problema è la mancanza di intelligenza, non di bontà […]. Quindi la politica della piena occupazione è solo una applicazione particolare di un teorema intellettuale” (Keynes, 1980b, p. 384).
E, poco prima, in un celebre discorso alla Camera dei Lords, del 23 maggio 1944: “[negli ultimi vent’anni] ho impiegato tutta la mia energia per persuadere i miei concittadini e il mondo in generale a cambiare le teorie tradizionali e, accettando un modo di pensare migliore, allontanare la maledizione della disoccupazione” (Keynes, 1980a, p. 16).
Chiaramente per “un modo di pensare migliore” Keynes intende una teoria che mostri come la disoccupazione possa essere sconfitta, sconfessando la teoria economica tradizionale per cui ogni livello di disoccupazione esistente – stabilito dalle forze di mercato – è un livello a cui l’economia sarebbe nel lungo periodo ritornata. Per questo nella macroeconomia moderna questo livello viene addirittura chiamato ‘naturale’.
Dagli anni quaranta in poi la teoria economica si è sviluppata in forma di modelli che, seppur con eroiche semplificazioni, dovevano servire a catturare le relazioni fondamentali del sistema economico; in questo modo potevano essere empiricamente verificati e le loro previsioni potevano essere usate per forgiare gli strumenti d’intervento.
La previsione, la misurazione, la verifica empirica apparivano come garanzie dell’aspetto scientifico della teoria economica, dove ‘scientifico’ voleva dire somiglianza con la fisica, con il suo rigore e la sua capacità predittiva. Dopo Lionel Robbins (1932), che sostenne che le considerazioni riguardanti l’etica e la filosofia politica dovevano essere bandite dalla teoria economica, anche Karl Popper negli anni trenta (Popper, 1935) diede legittimità all’idea che l’economia era scienza solo se libera da valori e aveva capacità predittiva.
L’insistenza di Milton Friedman, nelle due decadi successive, sulla capacità di previsione della teoria come l’unico test della sua bontà e la matematizzazione della disciplina economica per convinzione di Paul Samuelson diedero nuovo impeto al tentativo di imitare le scienze fisiche nella scelta del metodo d’indagine da impiegare in economia.
Questo modo di intendere la bontà di una teoria ha portato a risultati non sempre soddisfacenti. Se i ‘fatti’ sono identificati con le stime empiriche di modelli che incorporano gli sviluppi più recenti della teoria economica è evidente che questi fatti diventano molto dipendenti dai modelli impiegati e dalla metodologia usata per interpretarli. Il rapporto tra teoria e fatti diventa ambiguo e i risultati finiscono per riflettere l’egemonia di questa o quell’impostazione teorica. Egemonia che non è immune dalle mode accademiche. Farò un esempio tratto da vicende recenti.
L’episodio che vorrei utilizzare è quello del moltiplicatore – il cuore della teoria keynesiana della domanda effettiva – che ha una storia di alterna fortuna negli ottantacinque anni della sua esistenza. È una formula che mostra come ogni aumento della spesa autonoma (ad esempio investimenti o esportazioni) genera – attraverso la spesa indotta (consumi, al netto delle imposte e delle importazioni) – un aumento di reddito maggiore della spesa iniziale se esistono capacità produttiva inutilizzata e disoccupazione. Di qui il nome moltiplicatore, il cui valore è tipicamente maggiore di uno. La spesa in deficit di bilancio, cioè una spesa pubblica maggiore del gettito fiscale, diventa così giustificata sotto due punti di vista: a) poiché crea reddito; b) poiché genera quei risparmi e quel gettito (che sono funzione del reddito) necessari a finanziare l’investimento iniziale.
Il consenso su questa proposizione durò per quasi trenta anni, fino a quando fu fortemente attaccata nel corso dell’assalto monetarista degli anni sessanta. Milton Friedman – sulla base anche di lavori di Franco Modigliani – mostrò attraverso analisi empiriche che la variabile indipendente nella funzione del consumo non è il reddito corrente, ma il reddito che si può considerare come “permanente” nell’arco della vita di un individuo. Il valore del moltiplicatore è in questo caso molto più basso perché il consumo non risponde all’aumento del reddito corrente. I semi della rinata sfiducia sull’efficacia della politica fiscale furono così gettati. Questa, che fu chiamata la controrivoluzione monetarista, fu perseguita ancora più radicalmente da Robert Lucas e dagli economisti della Nuova Scuola Classica per tutti gli anni novanta, con una difesa teoricamente debole da parte dei cosiddetti Nuovi Keynesiani, i quali relegarono l’efficacia del moltiplicatore al breve periodo, una condizione definita da prezzi e salari rigidi che impediscono al sistema di raggiungere l’equilibrio di lungo periodo in cui c’è piena occupazione.
Fino alla crisi del 2007-2008, la maggior parte degli economisti in università prestigiose, in istituzioni come la World Bank e il FMI, in autorevoli giornali e riviste come il Financial Times e l’Economist accettò le stime di un basso valore del moltiplicatore come prova dello scarso o addirittura nullo impatto della spesa pubblica. Gli argomenti tradizionali contro gli interventi congiunturali – ritardi nei meccanismi decisionali e d’implementazione – uniti all’ipotesi di aspettative razionali di agenti che anticipano e neutralizzano l’azione dell’autorità pubblica, facevano apparire impossibile utilizzare al momento giusto la politica fiscale come strumento per rilanciare l’economia.
Tuttavia il moltiplicatore è ritornato sulla scena dopo la crisi. Negli anni cinquanta e sessanta, all’apice del Keynesismo, si stimava che il valore del moltiplicatore fosse approssimativamente pari a due. Negli anni novanta e duemila le stime econometriche mostravano valori molto bassi, assestandosi intorno a 0,5-0,7. Nel 2009 il FMI e la UE portano le stime del moltiplicatore all’interno di una forchetta tra 0,9 e 1,7 (Marcuzzo, 2014). Finalmente abbiamo di nuovo un moltiplicatore che moltiplica, perché questo non si può non vedere – come nel caso dell’Europa dell’austerità – quando la spesa autonoma si riduce. 

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Articolo tratto da Moneta e Credito, vol. 70 n. 277 (marzo 2017), 7-19
Fonte: Keynesblog.com 

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