La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 1 giugno 2017

La Costituzione messa in pratica: la lezione di don Milani

di Tomaso Montanari
Cinquant’anni fa, il 26 giugno 1967, un “cammello entrava nel regno dei Cieli”. Era Lorenzo Milani, uno figlio di ricchi, che saliva in paradiso. Per i cristiani don Lorenzo è soprattutto una imitazione straordinariamente aderente della persona e dell’opera di Gesù (proprio nel senso, antico e altissimo, dell’imitatio Christi). Immagino che qualcosa di simile provassero gli italiani del primo Duecento vedendo Francesco d’Assisi: un altro Cristo sulle strade del mondo. Per tutti gli altri, Milani rappresenta soprattutto un altro modo di fare scuola.
Il simbolo del metodo di Barbiana è ancora lì, ed è assai tangibile: il grande tavolone di legno fatto dagli stessi scolari, anzi dai “ragazzi”. Didattica senza banchi, tutti intorno a un tavolo. Un modello che non aveva niente a che fare con ciò che poi sarebbe esploso nel 1968. Le radici di questo approccio vanno cercare altrove, e cioè nella cultura altissima e nella consuetudine con la pratica accademica che don Lorenzo aveva respirato in famiglia: suo nonno era il grande numismatico Luigi Adriano Milani, il suo bisnonno il celebre filologo Domenico Comparetti. Ad aiutarlo, poi, ad orientarsi nella formazione, e ad esaminarlo circa la serietà del suo orientamento verso la conversione al cristianesimo e al sacerdozio fu Giorgio Pasquali, massimo filologo classico italiano del Novecento. È grazie a questa formazione che Milani cresce come un umanista, esattamente nel senso che Erwin Panofsky fissa in questa formula: “uno che nega l’autorità, ma rispetta la tradizione”. E il metodo di Barbiana non è altro che il metodo del seminario scientifico -consueto per la cultura accademica tedesca, e praticato per esempio da Pasquali e dai suoi allievi- per cui tutti gli studenti, anche le matricole, si siedono alla pari intorno ad un tavolo e lavorano insieme su un testo, e sotto la guida, incalzante e maieutica, dell’insegnante. 
Se questo era il metodo, sul fine della Scuola di Barbiana don Milani non lascia alcun dubbio: è una scuola lontana mille miglia dalla retorica neoliberista della meritocrazia (“Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose” e “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”), una scuola che punta all’alfabetizzazione di tutti (“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta”), una scuola che non mira alla creazione di una nuova classe dirigente, ma di una massa cosciente. Una scuola il cui fine ultimo è la formazione del cittadino sovrano di domani.
Metodo umanistico della critica storica e abilitazione all’esercizio della sovranità e della cittadinanza: non conosco una via più radicale di quella di Barbiana per l’attuazione del primo comma dell’articolo 9 della Costituzione, per cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca”, intimamente legato all’articolo 1 secondo comma (“La sovranità appartiene al popolo”) e all’articolo 3, secondo comma (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). La Buona Scuola, o la Scuola di Barbiana? Un bivio decisivo e drammatico. Due idee opposte di scuola e di società, due idee opposte del futuro della democrazia.

Fonte: altreconomia.it 

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