La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 1 giugno 2017

Gramsci. Il giornale, forma originale della politica

di Alberto Madricardo
Tessere, come recita la scheda di presentazione, è una associazione culturale impegnata, tra l’altro, nell’attività editoriale, dalla quale proviene anche il volume che stiamo presentando. La pubblicazione avviene in concomitanza con l’ottantesimo anniversario della morte del dirigente comunista sardo, avvenuta il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo aver ottenuto la piena libertà per ragioni di salute – quando ormai le sue condizioni fisiche erano irrecuperabili – dal regime fascista, che lo aveva tenuto incarcerato dal novembre del 1926.
Il volume offre una panoramica, inevitabilmente selettiva (soggettiva, come precisato nella nota del curatore), della riflessione sul giornalismo di Antonio Gramsci e della sua produzione negli anni precedenti la sua incarcerazione, durata fino alla vigilia della morte.
La celebrazione è – come sempre in questi casi – occasione e pretesto per riflettere attraverso il passato sul presente. In Gramsci la riflessione teorica e l’impegno pratico nel giornalismo sono parti organiche e imprescindibili del suo impegno più generale a cambiare la realtà. Tale cambiamento richiede la formazione di un nuovo soggetto storico – il proletariato – che libera le proprie energie ed è all’altezza del suo compito nella misura in cui si disaliena dallo stato di cose esistente. In questo processo di disalienazione il giornalismo ha un ruolo determinante.
Per Gramsci il giornalismo è dunque ben più che un impegno professionale: è praticamente una necessità politica. Come ricorda Luciano Canfora nella sua prefazione:
"Tutti o quasi i capi politici e tutti i leader rivoluzionari otto-novecenteschi erano stati alacri “giornalisti”: da Cavour, a Mazzini, a Marx, a Turati, a Lenin, a Jaurès. La scelta del giornalismo era dunque (per Gramsci) l’ovvia conseguenza dell’opzione per la politica."
Il Gramsci teorico sa che tutto si gioca nella riproduzione del rapporto realtà-soggetto. L’ordine dato delle cose appare alla coscienza alienata come un prolungamento di quello naturale: ineluttabile.
Per essere stato persuaso dalle classi dominanti ad accettare come naturali e perciò immodificabili le sue condizioni, il proletariato è la classe che è sempre stato passivo oggetto di storia. Poiché non ha mai giocato la sua chance di diventarne soggetto, l’ha ancora intatta davanti a sé. La novità è che ora ci sono le condizioni storiche e un pensiero adeguato, che rendono possibile attuarla.
Il distacco del proletariato dall’oppressione, che esso ha interiorizzato fino all’identificazione, non può avvenire all’ingrosso, solo sulla base di astratti principi ideologici. Non basta l’insegnamento, né la propaganda politica a risvegliarlo e farlo camminare sulle sue gambe.
Il cambiamento deve essere certo totale, ma anche molecolare, riguardare anche i sentimenti, coinvolgere gli automatismi, gli aspetti più quotidiani e minuti della vita delle masse. Bisogna che lo spirito critico ne modifichi nel profondo le abitudini e la sensibilità.
I giornali – che, come scriveva Thomas Mann, sono il breviario moderno – possono essere strumento essenziale del loro risveglio. Diffondendo quotidianamente attraverso la stampa lo spirito critico si può a e – ducare – nel senso letterale di trar fuori – il proletariato italiano dal guscio di fatalismo in cui le classi dominanti l’hanno rinchiuso nei secoli.
Esso deve imparare a guardare la realtà in controluce, saper ricostruire geneticamente gli stati di fatto, in modo che gli appaia chiaro che questi sono prodotto umano, e non imposti dalla natura. Per questo bisogna – scrive Gramsci – orientare il proletariato “dal senso comune al pensiero coerente e sistematico”. Il senso del possibile, una volta liberato, è respirato come ossigeno dagli animi: li risveglia, suscita in loro energie insospettate.
L’intellettuale tradizionale, specialmente nell’Italia dell’eterna decadenza – quando non si dedica a ottenere favori e prebende dal potere – è abituato a sollevare il proprio sguardo dalle cose del mondo. Ora deve nascere un intellettuale di tipo nuovo che lo rivolge in senso opposto:
"Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, – osserva Gramsci – ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista+ politico)."
L’intellettuale deve insomma farsi politico e – prima ancora – giornalista. Perché il giornalista ogni giorno sceglie i fatti degni di nota, li inquadra nel primo livello della loro elaborazione sociale: la cronaca. Così facendo offre agli uomini la prima base fattuale sulla quale essi ragionano e agiscono.
Il giornalista lavora sull’effimero, qualche prezzo lo deve pagare alla sua materia. Gramsci ne è consapevole. Racconta in una lettera alla cognata Tania di aver rifiutato la proposta che gli era stata rivolta di raccogliere in volume i suoi scritti giornalistici, perché, come riporta nella sua postfazione Giorgio Frasca Polara:
"quelle “righe” capaci appunto di “costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine”, avevano un limite: “erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata”."
L’effimero, il contingente, come categoria ed esperienza dello spirito, non è però di per sé affatto effimero: è l’altra faccia dell’eterno. La politica e il giornalismo sono i due modi per mettere in socialmente in comunicazione tra loro queste due facce e operarne la metessi. Il politico rivoluzionario, interessato a cambiare il mondo dalle fondamenta, ha bisogno di far filtrare i suoi principi negli aspetti e nelle dinamiche più elementari della vita sociale. Il giornalista, in senso opposto, lavorerà per far uscire un’organica, alternativa visione del mondo dal pulviscolo dei fatti.
La rivoluzione è un processo collettivo di scomposizione e ricomposizione del reale. Di deduzione e di induzione: politico e giornalista vi hanno perciò entrambi una parte essenziale.
Quello del giornalista è un lavoro che parte dal basso. Non dà gloria eterna, ma è necessario a educare le masse a sciogliersi dalla sudditanza al senso comune borghese, dischiudendo nei loro animi il senso dell’alternativa possibile.
Il loro partito, precisa Gramsci – il P.S.I. – “deve essere uno stato in potenza, che cresce maturando in antagonismo allo stato borghese”. Molto più di un partito dunque – di una parte – il partito del proletariato deve essere un tutto in embrione: un mondo nuovo che si forma dentro quello vecchio.
Se il compito è quello della ricostruzione del reale dal punto di vista proletario (non di un regno fantastico in cui farlo evadere), l’esercizio del giornalismo richiede una rigorosa preparazione e una ferrea disciplina intellettuale e pratica: ogni fatto, ogni parte della realtà deve essere meticolosamente scomposta e ricomposta, senza forzature o omissioni, per essere inserita nella visione del nuovo soggetto storico in fieri.
Questa esigenza di disciplina e rigore va contro certi tratti del carattere italiano (“l’improvvisazione, il “talentismo”, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l’irresponsabilità e la slealtà morale ed intellettuale”): ci vuole un impegno straordinario per cambiarli.
Poiché il baricentro dell’equilibrio sociale sta nel senso comune, su questo bisogna operare per dargli un’altra base. Il senso comune, afferma Gramsci,
"non è qualcosa d’irrigidito e d’immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. Il “senso comune” è il folclore della filosofia e sta sempre di mezzo tra il folclore vero e proprio (cioè come è comunemente inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il senso comune crea il futuro folclore, cioè una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo."
Quella di mantenere un senso comune impregnato di acquiescenza e rassegnazione è sempre stata somma preoccupazione del potere. Perciò il giornalismo, quando non ne è una mera emanazione, è in competizione con esso.
C’è un giornalismo apologeta dell’esistente, che svia e confonde il proletariato per mantenerlo oggetto passivo e malleabile, e c’è un giornalismo critico e rivoluzionario che opera in senso contrario.
La pressione dello stato di cose su ogni individuo delle classi oppresse è così forte che egli è spinto a chiudersi in se stesso, a riconoscere immodificabile questo stato di cose. La rassegnazione è una sorta di restringimento e asfissia delle anime. Al contrario, ogni allargamento degli interessi e delle conoscenze, ogni possibilità di mettere a confronto realtà diverse tra loro offerti da una stampa libera è per esse come una boccata d’aria. Suscita curiosità, bisogni nuovi, li estende e con ciò espande la platea dei suoi lettori.
Gramsci è convinto che, per dare sostanza ed energie al progetto rivoluzionario, ci sia bisogno di costruire una poderosa macchina dell’informazione. Perciò la sua attenzione si rivolge ai centri di produzione culturale operanti, di cui analizza le strutture, le modalità con cui creano i loro prodotti. Confronta le esperienze italiane con quelle straniere, cerca di imparare da loro tutto quello che può essere utile.
Fin qui la riflessione teorica del pensatore sardo, presentata in una raccolta di passi tratti dai “Quaderni”.
Nella seconda parte del volume viene proposto il Gramsci giornalista e polemista, che, mette in pratica i suoi presupposti teorici, si getta nella mischia quotidiana occupandosi di tutto: di critica di costume, teatrale, cinematografica, ecc.
Ammonisce l’operaio a non scordarsi l’importanza di una scelta consapevolmente di classe anche nell’informazione:
"Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all’ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione."
Qualche volta, in alcuni articoli pubblicati tra quelli pubblicati in “Sotto la Mole”, sull’Avanti, su La Città futura e in Ordine Nuovo, si fa trascinare dalla polemica, fino a ricordarci l’umore culturale provinciale e piccolo borghese un po’esagitato dell’Italietta d’inizio Novecento. Ma in alcune di queste note si fa avanti la visione grande, la sintesi folgorante che dalla cronaca passa d’un colpo alla storia.
Avvincente è l’analisi di Gramsci sull’Inghilterra e la Germania. Le classi dominanti di questi due paesi – scrive – partendo da premesse molto diverse e lontane tra loro, giungono a un risultato analogo: sono riuscite a coinvolgere il loro proletariato nel consenso e nella difesa dell’assetto politico sociale vigente in modo tale che in Italia sarebbe inimmaginabile.
In Germania, osserva Gramsci quasi ammirato:
"le classi hanno la convinzione, non retorica, non supina, ma formatasi attraverso decenni di esperienze di retta amministrazione, di osservata giustizia distributiva, che i loro diritti alla vita sono tutelati e che la loro attività deve consistere nel cercare di diventar maggioranza, per i socialisti, e di conservarsi maggioranza e dimostrare continuamente la loro necessità storica, per i conservatori"
Davanti a un liberale, Lloyd George, poi, che da ministro del governo britannico sfida i socialisti e dice:
"provate di essere la maggioranza, provate di essere non solo potenzialmente, ma anche in atto, la forza capace di reggere le sorti del paese. E noi vi lasceremo il posto pacificamente,"
Gramsci non si trattiene, e sbotta:
"Parole che a noi, abituati a vedere nel governo qualcosa di sfingico, astratto completamente dal paese e da ogni polemica viva su idee e fatti, sembrano strabilianti."
Il suo giudizio sulla borghesia italiana è duro e netto: si tratta di un insieme di cricche irresponsabili, non di una classe che sente sulle sue spalle un compito nazionale storico da svolgere. In Italia tutto è opaco:
"Una delle facce più appariscenti e vistose del carattere italiano è l’ipocrisia. Ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita famigliare, nella vita politica, negli affari. La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività."
Non meno duro il giudizio sul popolo italiano in generale:
"La libertà viene concepita in modo grottesco e puerile: non si arriva a comprenderla come garanzia per tutti, impersonalmente tutelata dalle leggi, che le autorità per le prime debbono essere tenute a rispettare. Il popolo italiano non è popolo di liberi, o di cittadini che liberi vogliono diventare: l’Italia è davvero, purtroppo, la nazione carnevale, e la libertà è libertà di divertirsi e grattarsi la rogna al sole."
Nell’ottobre del ‘17 accade qualcosa che induce Gramsci a cambiare in parte la sua impostazione fondo: un embrione di alternativa, di altro mondo possibile si è fatto reale. Da critico, si sente in obbligo di diventare allora anche apologeta, difendendo a spada tratta l’esperienza dei soviet:
"la rivoluzione proletaria è sociale – scrive – perciò deve superare difficoltà e obiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon riuscimento, pone taglie mostruose come quelle che il popolo russo è costretto a pagare."
Il fascismo è effetto dell’attivizzazione della piccola borghesia, una classe amorfa, inconsistente, senza una missione storica. In Italia però, osserva, “non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe “territorialmente” nazionale”.
"Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell’essere riuscito a costituire un’organizzazione di massa della piccola borghesia. È la prima volta nella storia che ciò si verifica."
Il fascismo – pronostica Gramsci – date le sue radici sociali, non potrà realizzare ciò che promette.
La terza parte del volume, costituita dalla selezione delle lettere, documenta del modo con cui il fondatore di Ordine Nuovo affronta i problemi della formazione dei giornalisti, della vita difficile della stampa rivoluzionaria, della censura e della repressione che si stringe sempre più intorno a lui anche personalmente, fino al suo arresto. E poi i problemi di sopravvivenza fisica e culturale durante la carcerazione, che diventano via via sempre più pesanti. Fin qua la documentazione del volume, che vuole mettere a fuoco specificamente il rapporto di Gramsci con il giornalismo. Lo fa in modo sommario, certo, ma sostanzialmente efficace.
"Resta ora – scrive Giorgio Frasca Polara nella postfazione – una domanda fondamentale: sono ancora attuali il progetto e l’esempio di Gramsci? Magari molte cose (…) sono superate: nella concezione e nella fattura di giornali, riviste, strumenti di comunicazione in genere. Nessuna sorpresa: basti pensare a quante cose, nel giornalismo, siano mutate ab illo. (…) Eppure ci sono, in quelle note, molte, moltissime intuizioni straordinarie su come sarebbe diventato il giornalismo, e sulle condizioni per promuovere e realizzare un giornalismo attrezzato, intellettualmente onesto, e soprattutto libero."
Dal punto di vista tecnico – è ovvio – quasi tutto nel mondo dell’informazione è cambiato dal tempo di Gramsci. Ma in che modo questo cambiamento tecnico influenza l’impegno etico e professionale del giornalista? Secondo me in nessuno: le conseguenze della rivoluzione della tecnica sono tecniche: certamente rilevantissime, ma tecniche.
Ciò che incide davvero profondamente sulle motivazioni del giornalista nella sua professione è il mutamento del quadro storico e dell’umore del tempo. Non è più possibile oggi un giornalismo militante nel senso che lo intendeva Gramsci, al servizio di un nuovo soggetto storico da risvegliare.
Non si vive più nei preparativi e per l’accumulazione delle forze: una complessità intrascendibile – noi che viviamo dopo che la carta proletaria è stata già giocata nella storia – ci avvolge da ogni parte.
Ora pare che torni a farsi schiacciante il peso dello stato di cose, e che noi rischiamo seriamente di subire con rinnovata alienazione la rinaturalizzazione delle relazioni sociali.
Certo in questa situazione un punto di resistenza è il metodo: una professionalità giornalistica precisa, rigorosa, come voleva Gramsci è di per sé un punto di forza per ogni spirito che voglia restare libero.
Ma forse non basta il senso della professionalità e il rigore metodologico. Non si può essere solo registratori neutrali di quanto accade. Bisogna avere un interesse diretto e profondo (anche personale) per i fatti, incalzarli, frugarli con l’occhio di chi cerca qualcosa. Per cercare, bisogna avere un’idea almeno vaga di ciò che si cerca.
Gramsci voleva educare il proletariato a decantare il possibile dai fatti. Per non cadere nella funesta rassegnazione che restringe gli animi ci vuole oggi un senso comune in cui si fondano intimamente la critica dell’esistente con una prassi costruttiva nella ricerca e nella sperimentazione sociale.
Una stampa libera e critica dovrebbe saper cogliere le sperimentazioni in atto di nuove modalità di promozione della socialità che fioriscono molecolarmente, a macchie di leopardo, nel mondo. Discuterle, metterle a confronto. Diffondere la cultura e il gusto dell’esperimento.
Anche oggi è dunque possibile un giornalismo militante, dallo sguardo lungo, che può dare un contributo determinante alla formazione dello spirito critico più maturo: quello della confutazione del reale attraverso un altro reale.

Fonte: ytali.com 

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