La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 30 maggio 2017

Operaismo, critica al lavoro salariato, critica del mito della crescita

di Ottavio Marzocca
Provo ad abbozzare una mia “risposta” ad una delle questioni di fondo che Emanuele Leonardi pone nel suo intervento (Neo-operaismo e decrescita: aprire un percorso di riflessione), questione che sintetizzerei in questi termini: perché il neo-operaismo è stato capace di elaborare una critica del lavoro salariato, ma non una critica del mito della crescita? La mia idea in proposito è del tipo seguente.
Come si sa, l’operaismo – almeno nella sua versione più radicale (Potere Operaio) – insistette molto su un’idea carica di potenzialità come quella del rifiuto del lavoro (in proposito mi limito a ricordare – fra gli altri – un testo di Antonio Negri: Partito operaio contro il lavoro, in AA.VV., Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano 1974, e un altro di Franco Berardi: Contro il lavoro, Edizioni della libreria, Milano 1970). Non era affatto scontato che ciò accadesse, data la centralità che in quell’esperienza ebbe, appunto, il riferimento al lavoro nella forma paradigmatica dell’attività dell’operaio massa della grande fabbrica. Questa figura ne risultò efficacemente rappresentata come incarnazione di un lavoratore che per primo nella storia del Novecento affermava il proprio ruolo politico senza subordinarlo alla rivendicazione orgogliosa del proprio ruolo produttivo, ma esprimendo piuttosto una critica collettiva e radicale del lavoro stesso in quanto forma di vita.
L’operaismo fu capace di leggere più o meno in questi termini i comportamenti sociali e politici dell’operaio massa, ma nel giro di pochissimo tempo si trovò anche a fare i conti con la crisi incalzante della sua centralità produttiva, come Negri avrebbe ricordato in Fine secolo (Sugarco, Milano 1988). Insomma negli anni Sessanta e Settanta, oltre che della “centralità” dell’operaio massa, si sarebbe dovuto parlare del ritardo con cui questa figura si era affermata nel sistema industriale italiano e del rapido declino cui essa sembrava destinata. Ad ogni modo, percependo questo incipiente declino, a metà degli anni Settanta molti esponenti dell’operaismo avevano già avviato il loro riposizionamento neo-operaista orientandosi di fatto verso l’esaltazione delle nuove forme di lavoro e di cooperazione produttiva: da quel momento, il lavoro non fu più semplicemente un’attività socialmente e politicamente “centrale”, ma divenne sempre più una potenza creativa, un’attitudine sociale totalizzante, pervasiva e capace di produrre sia ricchezza che liberazione.
In questo senso il passaggio dall’operaismo al neo-operaismo fece tutt’uno con l’abbandono progressivo dell’idea di rifiuto del lavoro ovvero con la sua riduzione a semplice critica del lavoro salariato e, in particolare, di quello rigidamente disciplinato della fabbrica fordista. Ben poca cosa rispetto alla radicalità e alle potenzialità che quell’idea sembrava contenere quando era stata proposta anche mediante la sua raffigurazione letteraria (si pensi a Vogliamo tutto di Nanni Balestrini). Il neo-operaismo così poté sottrarsi al compito e al rischio di un’ulteriore elaborazione teorico-politica di quella parola d’ordine; una simile elaborazione, invece, era necessaria non solo per andare oltre la sua declinazione sloganistica, ma anche per misurarsi sin da subito con l’esigenza di una critica dei miti della crescita e della produzione per la produzione, esigenza tutt’altro che precoce già negli anni Settanta.
Si potrà dire, ovviamente, che sarebbe stata un’elaborazione senza grandi prospettive. Ma non abbiamo idea di ciò che ne sarebbe risultato se il neo-operaismo l’avesse tentata, rispondendo alla “responsabilità” che si era assunto prefigurando proprio con l’idea di rifiuto del lavoro una civiltà del tempo liberato. Piuttosto, il neo-operaismo da allora si mosse in una direzione completamente diversa attraverso l’enfatizzazione crescente di figure e concetti quali operaio sociale, general intellect, moltitudine, lavoro biopolitico, etc.
Resta ancora da capire, però, fino a che punto questo percorso abbia rappresentato un vero avanzamento teorico e da quale punto in poi invece esso abbia costituito un’inconsapevole traduzione neo- o oltre-marxista – certamente feconda e ricca, ma in qualche modo tardiva – di concetti come quello di capitale umano che il neo-liberalismo americano aveva cominciato ad elaborare già dalla fine degli anni Cinquanta. Infatti, i teorici del capitale umano – con l’efficace rozzezza che li caratterizza, ma anche con un ventennio di anticipo – già da allora erano riusciti a valorizzare dal loro punto di vista molte delle figure e dei comportamenti produttivi che si sarebbero affermati nella società post-fordista. Comunque sia, proprio mentre l’operaismo avviava la sua metamorfosi neo-operaista, Michel Foucault coglieva la sconvolgente valenza critica che il concetto di capitale umano e la corrispondente figura dell’imprenditore di se stesso avevano nei confronti della centralità capitalistica attribuita dal marxismo al lavoro salariato come attività misurata e valutata semplicemente in termini di tempo. Purtroppo però Foucault mise a fuoco la teoria del capitale umano solo in un corso rimasto inedito fino a pochi anni fa, corso del quale peraltro molti si sono limitati poi ad apprezzare solo il suggestivo e alquanto ingannevole titolo (Nascita della biopolitica).
Leonardi nel suo intervento richiama – sia pure di passaggio – il concetto di imprinting, su cui insiste molto in altri contesti proponendolo come nozione corrispondente all’attitudine “post-salariale” dell’individuo imprenditore di se stesso (si veda: Logiche dello sfruttamento, pubblicato con F. Chicchi e S. Lucarelli per ombre corte, Verona 2016). A mio parere, proprio insistendo su questo tema, Leonardi fa emergere indirettamente un altro ritardo che il neo-operaismo sta cercando affannosamente di colmare. Esso non riguarda tanto la messa a fuoco del ruolo economico-produttivo dell’individuo-impresa, quanto la considerazione del peso egemonico che figure come questa esercitano sui modelli di comportamento etico e politico della nostra società. Sarà pur vero – come sostiene Lazzarato – che l’imprenditore di sé oggi non è altro che un uomo indebitato; ma è altrettanto vero che fin dalle origini del capitalismo la disponibilità ad indebitarsi è un’attitudine etica fondamentale di chi si vuole imprenditore anche se rischia il ridicolo, oltre che la miseria.
Quanto all’ipotesi, delineata da Leonardi stesso, di conciliare sul terreno dell’ecologia politica le prospettive dei soggetti che stanno “dentro” i punti avanzati dello sviluppo con quelle dei soggetti che ne sono rimasti “fuori”, direi che ci si può riflettere; senza trascurare, però, le forme sempre più de-cosmicizzate e autoreferenziali dell’ethos “post-salariale”, che – specie nelle società avanzate – ostacolano la riconnessione dell’individuo medio con il mondo materiale in quanto ecosistema e dimensione dell’abitare comune (basti pensare al narcisismo dilagante nell’universo smaterializzato della rete). Mi riesce difficile, in ogni caso, pensare che a tal proposito mantenere come riferimento privilegiato il punto di vista neo-operaista non rappresenti un problema in più, più che una soluzione. Ma, ovviamente, di questo si può discutere.

Fonte: effimera.org

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