La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 1 giugno 2017

Numero chiuso, lotta all’intelligenza e conflitto sul welfare

di L. A.
È stato approvato nei giorni scorsi l’introduzione del  numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’Università Statale di Milano: nel prossimo anno accademico 2017-18, a Filosofia saranno disponibili 530 posti rispetto alle 739 immatricolazioni di quest’anno, si passerà a 480 posti per Storia contro i 651 iscritti, 500 per Beni Culturali contro 646 iscritti, 230 per Geografia contro 282 iscritti. A Lettere col numero chiuso ci saranno 550 posti.

La stampa becera e servile esulta. “Duecento filosofi in meno sono senz’altro una buona notizia” scrive con soddisfazione Il Foglio, ma non è di questo di cui vogliamo parlare. Vogliamo sottolineare, piuttosto, il carattere paradigmatico di questa vicenda che si inquadra in una tematica più generale di guerra all’intelligenza e alla cultura come forma di dominio e nuovo sfruttamento.  Il welfare diventa così  il nuovo ambito di conflitto.
Ricapitoliamo come si è giungi a questa decisione.
  1. Nell’ambito della perenne riforma universitaria in corso, nell’agosto 2016, viene pubblicato un atto ministeriale del MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca) in cui si definiscono i parametri per “l’autovalutazione,valutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari”. Tale atto diventerà operativo con il Decreto Ministeriale del 12 dicembre 2016 n. 987 . Gli indicatori utilizzati sono stati definiti negli anni precedenti, all’indomani della riforma targata Gelmini-Tremonti, L. 133. Tra questi compare anche quello relativo al massimo rapporto docente-studenti per i corsi di laurea, che con il decreto di dicembre subisce una restrizione. Lo scopo dichiarato è quello di ridurre la numerosità di corsi al fine di favorire una maggior qualità della didattica. È notoria la carenza di infrastrutture dell’università italiana, tempo fa carenza di spazi (ora meno pressante per la riduzione progressiva delle immatricolazioni anche grazie al calo demografico) e oggi tramutata in carenza di organico (come per la sanità)
  2. Contemporaneamente, la riforma Gelmini-Tremonti aveva portato ad una contrazione dei finanziamenti del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) di 1,5 miliardi di euro in tre anni. Oggi gli effetti nefasti di quella riforma si fanno sentire, soprattutto per quanto riguardo il blocco delle assunzioni di nuovi docenti. L’eliminazione della figura del ricercatore universitario stabile, voluta dalla Gelmini, ha creato effetti boomerang sul mantenimento di un corpo docente adeguato all’offerta didattica. Di fatto, il reclutamento di personale docente è per lo più finalizzato a trasformare i contratti di ricercatore di tipo A e di tipo B a tempo determinato in posizioni stabili (associato) per poter mantenere la struttura dei corsi esistenti che avrebbe bisogno di un ampliamento dell’organico.
  3. Ne consegue che per il prossimo anno accademico, a fronte della riduzione del rapporto studenti-docenti, non essendosi sufficienti risorse e non avendo la struttura baronale dell’università italiana nessuna intenzione di condurre una battaglia in sede ministeriale per poter usufruire di maggiore risorse, il numero degli studenti immatricolati si deve adeguare all’organico esistente. Il che è un vero e proprio paradosso per un paese che vanta il triste primato europeo di avere la più bassa quota di giovani laureati sul totale dei pari età (25%) dopo la Romania.
In altre parole, la riduzione della spesa per l’istruzione universitaria, come era prevedibile, si scarica sulla limitazione agli accessi.
  1. Il Fondo di Finanziamento Ordinario è composto da due tranche. La prima, che incide per il 75% circa dell’ammontare complessivo erogato ai singoli atenei, dipende dal numero degli studenti iscritti. La seconda trance, circa ¼, è in funzione dei criteri di valutazione sulla didattica e sulla ricerca, introdotti con la riforma Gelmini e stabiliti dall’Anvur (Agenzia nazionale valutazione università e ricerca) e dovrebbe corrispondere al merito. Non entriamo in discussione di come siano definiti i criteri di misurazione del merito. Rileviamo semplicemente che si vuole misurare con parametri quantitativi ciò che dal punto di vista qualitativo non è misurabile. Ciò che vogliamo sottolineare è che l’introduzione del numero chiuso comporta una ovvia riduzione degli studenti e quindi favorisce la riduzione dello stesso FFO. Si introduce così il numero chiuso perché non si hanno sufficienti risorse per adeguare il corpo docente al numero degli studenti che vorrebbero iscriversi, con l’effetto, a dir poco paradossale, di ridurre lo stesso finanziamento del Miur.
La triste storia che raccontiamo merita alcune riflessioni più generali.
Le politiche di austerity e di riduzione della spesa pubblica dei servizi sociali (istruzione e sanità, in primo luogo) sono strumentali. Il fine non è la riduzione del rapporto debito/Pil (come viene propagandato) ma piuttosto la finanziarizzazione (via privatizzazione) di tali servizi sociali. Ciò avviene in due mosse: si riduce il finanziamento pubblico e l’universalità del servizio spostando sui singoli l’onere dei costi relativi e si incentiva il ricorso a forme di assicurazione privata (per chi se lo può permettere)  gestita dalle oligarchie finanziarie.  In sintesi, si ricorre al debito privato per sostituire il debito pubblico.
Tale processo deriva dal fatto che oggi, nel capitalismo bio-cognitivo, i servizi di welfare, a differenza del periodo fordista,  sono direttamente produttivi. Il welfare è un modo di produzione. E non può essere altrimenti dal momento che è la stessa vita a essere mercificata e messa in produzione. Conseguentemente, le politiche sociali sono a tutti gli effetti politiche del lavoro e viceversa. E come tali devono essere sottoposte al controllo privato e alla proprietà privata.
Nel caso dell’istruzione universitaria, ciò è particolarmente evidente. L’università infatti è il primo servizio pubblico ad essere sottoposta a valutazione, in base alla quale vengono erogati parte dei finanziamenti. Per quanto riguarda la ricerca, i  criteri di merito, basandosi sulle citazione e sulle pubblicazioni su riviste di fascia alta, premiano per definizione il pensiero dominante, per il semplice fatto che la ricerca mainstream dispone di maggior fondi e luoghi di pubblicazioni. In tal modo, soprattutto in alcune discipline, la pluralità di pensiero viene di fatto fortemente sacrificata, in nome di un carrierismo che privilegia il servilismo di potere. Ciò non può stupire, dal momento che, come ci ricordano Marx e Engels ne L’Ideologia tedesca: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante.”
Ne consegue che l’università è sempre più un’università di classe. Come attestano i dati della ricerca Alma Laurea, solo il 20% dei laureati appartiene alle classi di redito medio-basso, provenienti da famiglie operaie e impiegatizie a basso livello. E tanto più oggi il welfare si trasforma sempre più in strumento di produzione biopolitica e di valorizzazione capitalistica, tanto più tale strumento deve essere asservito all’ideologia dominante dell’oligarchia di potere.
Da questo punto di vista, l’introduzione del numero chiuso alle facoltà umanistiche dell’università di Milano acquista un significato nuovo e rilevante: è strumento di lotta di classe, perché sarà sempre più sul tema del welfare che si svilupperà il conflitto sociale nel nuovo millennio.
Fonte: effimera.org 

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