La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 30 maggio 2017

La rimonta di Corbyn, riaperta la partita per il Labour

di Antonio Cannata
Da qualche giorno in terra di Brexit e non solo lì, è calato il silenzio tra i profeti di sventura, variamente amanti di terze vie, larghe intese e austerità. Probabilmente la guida di Jeremy Corbyn non sarà per il Labour “il più grande suicidio politico della storia“. La prospettiva di una vittoria “a valanga” dei Conservatori rischia seriamente di evaporare e con essa l’obiettivo principale con cui Theresa May poco più di un mese fa aveva chiesto e ottenuto le elezioni anticipate: una larga maggioranza per portare avanti i piani di hard Brexit e consolidare l’immagine di leadership “forte e solida“.
A dieci giorni dal voto dell’8 giugno, è capitato quello su cui in pochissimi erano pronti a scommettere. Nel giro di quattro settimane quei 20 punti dei Tories sul Labour si sono ridotti a una sola cifra. Più della metà. In particolare il primo sondaggio post attentato di Manchester è stato per i suddetti profeti una vera e propria doccia fredda: l’indagine YouGov/Times del 24-25 maggio ha segnalato la discesa dei Tories al 43% e la spinta in alto del Labour al 38, il miglior piazzamento dai tempi di Ed Milliband. Una distanza di soli 5 punti. Insomma, nemmeno la reazione all’attacco terroristico ha invertito il trend, che in queste settimane ha fatto pian piano impallidire il primo ministro e i suoi sodali di governo e di partito, rimasti quasi sgomenti quando si sono accorti che a garantire un’ampia vittoria (e maggioranza) non era più sufficiente il collasso per estinzione della ragione di esistenza dei populisti dell’Ukip. La stessa decisione, giunta dopo la diffusione del sondaggio, di rinviare di un giorno la ripresa della campagna elettorale dopo la sospensione per la strage ha tradito il panico che attraversa il quartier generale dei Tories.
Certo, con i sondaggi bisogna andare con i piedi piombo. Soprattutto in Gran Bretagna dove sia nelle elezioni di due anni fa sia nel referendum sulla permanenza dell’Ue, due anni fa lo spoglio delle schede smentì clamorosamente gli istituti demoscopici che per mesi avevano dato il testa a testa mentre le urne consegnarono una netta affermazione di David Cameron. Ma è anche vero che quegli stessi istituti hanno apportato alcuni aggiustamenti suggeriti dai risultati di un’inchiesta indipendente commissionata dal British Polling Council e il Market Research Council, per evitare altri macroscopici errori. Ed è oggettivo che siamo in presenza di una tendenza, segnalata anche dai dati sull’apprezzamento verso i leader (erosione per Mrs May, balzo di oltre dieci punti per ‘Jezza‘) e confermata dalla media dall’ultimo ‘giro’ di sondaggi realizzati nel fine settimana secondo cui il distacco tra Tories e Labour è sceso a circa 9 punti. L’altra sera, ai microfoni di BBC Newsnight, Sir David Butler, decano degli studiosi dell’andamento del comportamenti degli elettori ha ammesso che “non ha mai assistito a un così grande movimento nei sondaggi“.
Il punto è che la Gran Bretagna di oggi non è molto cambiata rispetto a quando si espresse per uscire dall’Ue. Anzi, se si rivotasse oggi, il Remain perderebbe più malamente di un anno fa. Ancora oggi, nonostante gli anni dell’austerity, è un Paese che cresce poco, vive nella paura di un’inflazione crescente e bassi salari. Quella richiesta di “protezione” e di rigetto verso l’austerità, che sottintendeva alla vittoria di Brexit, non è scomparsa e attraversa ancora trasversalmente tutta la società. Dopotutto non va dimenticato che, accanto alla questione immigrazione, a fare più di tutti breccia nell’opinione pubblica fu la promessa di rilanciare il servizio sanitario nazionale (Nhs) grazie alla fine delle contribuzioni al bilancio dell’Unione cui il Regno Unito era tenuto. Questo spiega anche il perché non deve apparire sorprendente che nella campagna elettorale la Brexit – e la valutazione su chi sarà meglio in grado di concludere un buon accordo per l’uscita – resta in cima alle priorità, ma non è al primo posto, occupato invece da un altro tema: la richiesta di welfare e di servizi pubblici accessibili da un lato e investimenti pubblici per lo sviluppo e l’occupazione dall’altro. Chi, come blairiani e liberal-democratici, criticava Corbyn per non aver puntato sui voti del Remain si è dovuto ricredere.
È lungo questo crinale che si sta verificando il cambio di clima suggerito dai sondaggi.
Un cambio che ha subito un’accelerazione una settimana prima della strage, con la pubblicazione dei manifesti elettorali dei partiti. Effetto generato dal combinato disposto di una buona campagna elettorale del Labour – a cominciare dallo slogan (“For the many, not the few“) – a cui ha giovato l’affievolimento delle critiche della parte più moderata del partito e le grossolane cantonate dei Conservatori. Contrariamente a tutti i pronostici, le proposte dall’impianto spiccatamente socialista del Labour hanno colpito favorevolmente l’elettorato: cura del welfare e rilancio del servizio sanitario, abbattimento delle tasse universitarie e crescita delle aliquote per i più ricchi, rinazionalizzazioni (Ferrovie, servizi postali, servizio idrico e società per l’energia elettrica). Mentre May e Tories, travolti dalle critiche, sono stati costretti ad una clamorosa inversione di marcia sul taglio dei servizi di assistenza domiciliare per gli anziani (la “dementia tax“), che rischia di polverizzare la loro reputazione di personalità “strong and stable” che contrappongono alla “debolezza” dell’avversario. Da qui la crescita del Labour, che a suo favore ha visto sciogliere la riserva di una fetta di indecisi e la decisione di recarsi alle urne di coloro che due anni fa non lo avevano fatto. Non solo. Anche i dati delle preregistrazioni hanno portato notizie incoraggianti, considerato che diverse centinaia di migliaia di costoro sono under 25, fascia d’età che tutti i sondaggi indicano a stragrande maggioranza “tifosa” del Labour.
Il dubbio sull’effettiva rimonta del Labour non può certamente dirsi fugato. I Tories restano avanti e la “montagna da scalare” necessita di essere ancora duramente scalata. E in una vittoria elettorale a fare la differenza dipende da molti fattori, come ad esempio la credibilità di una leadership.
Dovrà passare ancora qualche giorno per verificare l’impatto che la strage di Manchester avrà effettivamente sull’elettorato. Sarà necessario attendere se quest’ultimo continuerà a fidarsi del primo ministro e delle misure che ha schierato l’esercito per le strade ma che sente che qualcosa non ha funzionato nei servizi di sicurezza (l’Mi5 ha aperto un’inchiesta interna per aver lasciato inascoltate ben tre segnalazioni sull’attentatore di Manchester), oppure la visione di Corbyn, “duri contro il terrorismo e contro le cause del terrorismo” che ha messo in dubbio gli ultimi quindici anni di politica estera. Uno snodo importante saranno le “forche caudine” di Jeremy Paxman su Skynews che lunedì sera intervisterà uno dietro l’altro i leader dei due principali partiti, dopo il rifiuto di Theresa May del faccia a faccia con Corbyn.
Ad oggi, comunque, il distacco si è ridotto ad una sola cifra. Come ricorda in un editoriale di sabato il Guardian, “non è mai saggio per i partiti dare per scontati voti e consenso”. Una considerazione valida anche per alcuni commentatori e analisti, compresi quelli che scrivono sui quotidiani italici, che, spesso e frettolosamente, hanno considerato chiusa la partita sentenziando che l’alto tasso di “sinistra” della leadership di Corbyn “porterà il Labour a sbattere“. Non è così. Una proposta nettamente socialista è pienamente in partita. Nella culla del capitalismo.

Fonte: largine.it

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