La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 giugno 2017

Le conseguenze economiche della diseguaglianza

di Gianluca Piovani
Un report economico molto interessante, prodotto dalla casa di investimenti PIMCO, contempla l’aggiunta di un nuovo sotto scenario nel quadro dell’analisi macro economica svolta dalla società. Un elemento fondamentale della ricerca economica svolta dalle case di investimento consiste infatti nel delineare un certo numero di scenari possibili (ad esempio: scoppio di una crisi in Cina, piano di stimoli fiscali e crescita negli USA, iper inflazione, divisione della zona euro ecc.); ad ognuno di questi scenari viene poi assegnata una probabilità e infine, in base al quadro d’insieme così elaborato, vengono consigliate determinate scelte di investimento.
Il nuovo scenario in questione prevede un aumento della produttività da qui al 2020 del 4%, un fattore che potrebbe apparire non decisivo ma che in realtà non sarebbe affatto trascurabile. Già di per sé significativa è l’aggiunta di uno scenario “positivo”, in un contesto da molto tempo caratterizzato da un generale pessimismo. L’aumento della produttività viene giustificato in parte mettendo in conto un’applicazione più capillare di tecnologie già esistenti e in parte ipotizzando un ulteriore progresso tecnologico nei prossimi anni. In entrambi i casi la causa ultima dell’aumento della produttività è la tecnologia. Ma lo scenario si spinge anche a ipotizzare le conseguenze di questo aumento, che vengono descritte in due sotto-scenari: il primo prevede che alcuni lavori siano sostituiti da robot e che le nuove tecnologie in genere rendano meno necessario il lavoro umano come fattore di produzione. In questo scenario il PIL aumenta solo marginalmente, in quanto l’aumento della produttività non è impiegato per aumentare la produzione ma per ridurre l’utilizzo di manodopera e i costi. Questo aumenta i profitti delle imprese ma d’altra parte incrementa la cosiddetta disoccupazione tecnologica ed i lavori saltuari e precari; al contempo crescono le diseguaglianze. Nel secondo sotto-scenario, invece, la società si adatta ai nuovi cambiamenti, il mondo del lavoro reagisce rapidamente attraverso uno spostamento verso mansioni più intellettuali minimizzando così il problema della perdita di posti di lavoro.
Il sotto-scenario di disoccupazione tecnologica è forse più plausibile e presenta spunti di riflessioni interessanti. Benché la misura del PIL venga tuttora considerata di importanza fondamentale, si trascura spesso di riflettere su come l’incremento del PIL non implichi necessariamente un parallelo aumento del benessere. Il PIL misura un flusso di nuova ricchezza, ma lascia del tutto impregiudicato come questa nuova ricchezza e quella già esistente vengano redistribuite. La distribuzione della ricchezza, come emerge anche da precedenti articoli pubblicati su Pandora, è un processo di natura politica che non ha nulla di automatico e che negli ultimi anni ha avuto pressoché invariabilmente come esito un aumento delle diseguaglianze. Come mai?
Sicuramente questo fenomeno ha una relazione, di causa ed effetto al tempo stesso, con la crisi della sinistra di stampo socialdemocratico in Occidente. I lavoratori di reddito medio basso, le classi medie minacciate e i disoccupati si rivolgono in misura sempre crescente, già da molto tempo ma ancora di più nel periodo successivo alla crisi del 2008, a offerte politiche di destra, che sempre di più assumono i caratteri “liberal-protezionisti” descritti in una serie di articoli pubblicati su questo sito. Se da un lato si tratta di proposte che sembrano venire incontro alle paure e alle incertezze di un elettorato preoccupato dall’indebolimento del proprio status economico e da altre minacce vere o presunte (immigrazione, criminalità, terrorismo ecc.), dall’altro le politiche concretamente proposte sono del tutto inadeguate a fornire una risposta strutturale a questa condizione di incertezza contribuendo, anzi, a perpetrarla e ad aggravarla.

Politiche economiche e diseguaglianza

Donald Trump è un buon esempio di quanto descritto. Il neo presidente ha utilizzato molto efficacemente la paura degli immigrati messicani e della stagnazione dell’attività economica per attrarre i voti dei lavoratori e dei disoccupati che si ritenevano penalizzati dalla globalizzazione. Tuttavia un elemento centrale della sua proposta consiste in un piano di tagli alla tassazione delle fasce di reddito più alte e delle imprese. In particolare nel suo programma viene presentata come semplificazione fiscale la riduzione delle aliquote da 7 a 4. La riduzione delle aliquote favorisce relativamente poco chi già paga poche tasse, ovvero i lavoratori più poveri, mentre d’altra parte ha effetti via via più consistenti all’aumentare del reddito. Se fosse applicato quanto previsto nel programma di Trump, l’aliquota marginale per i redditi più elevati crollerebbe dal 39.6% al 25%. Similmente per le imprese: la tassazione dovrebbe diminuire dal 35% al 15%. Tale riduzione non vale solamente per la piccola e media impresa ma anche per le grandi multinazionali come Apple e Google, che già si segnalano per una considerevole capacità di eludere la tassazione sfruttando abilmente le normative fiscali e la concorrenza tra Stati per attrarre le imprese.
Un altro punto rilevante del programma di Trump prevede un aumento della spesa per lavori pubblici. Tuttavia tale risultato è ottenuto non in modo diretto tramite un intervento dello stato nell’economia, ma utilizzando crediti fiscali per le imprese (ovvero un’ulteriore detassazione). Il Presidente, invece, non ha mai fatto mistero di voler abolire il più rapidamente possibile la riforma della sanità di Obama, la quale, per quanto gravata da diversi limiti, estendeva effettivamente la copertura sanitaria a una parte della popolazione che prima non ne beneficiava ed esercitava dunque una funzione di tutela e redistribuzione. Al di là delle apparenze, quindi, rimane l’idea di fondo che lo Stato sia una fonte di costi e di inefficienze mentre il settore privato viene visto come il vero motore che può fornire stimolo all’economia: tagliare le tasse è quindi uno strumento ottimale poiché riduce l’intervento pubblico e contemporaneamente incentiva il settore privato. È però evidente come gli effetti in termini redistributivi di queste politiche vadano nella direzione di un aumento delle diseguaglianze.
Apparentemente il neo eletto Presidente della Repubblica Francese non potrebbe apparire più lontano, nello stile, nei valori e nelle intenzioni, da Donald Trump. Eppure la matrice del programma di Macron non è così diversa: si tratta di politiche di stampo liberista ed avverse alle tipiche istanze della sinistra francese. Il programma di Macron prevede di rivedere le 35 ore lavorative e di eliminare o ridurre le maggiorazioni di stipendio previste per le prestazioni di lavoro oltre le 40 ore. Prevede inoltre -certo- di creare 10,000 nuovi posti di lavoro nella polizia, ma allo stesso tempo di tagliarne 120,000 nelle pubbliche amministrazioni. Ancora una volta lo stato è visto non come uno strumento per redistribuire risorse e temperare le inefficienze di mercato ma come un costo ed un’inutile appendice. Altro punto rilevante del programma di Macron è la riduzione della tassazione per le imprese che dovrebbe passare dal 33% al 25%.
Anche nel caso dell’Italia non sembra che le politiche degli ultimi anni abbiano avuto un carattere redistributivo. Alcune misure economiche molto significative sono state prese senza pianificazione e sulla base delle necessità del momento, per far fronte a scompensi di cassa o alla speculazione in atto contro il paese. In questi casi il metodo più rapido è fare cassa colpendo i soggetti economici più deboli; far pagare chi possiede fortune economiche rilevanti è molto complesso e faticoso perché i grandi patrimoni sono mobili e hanno a disposizione vari strumenti tecnici e legali per eludere la tassazione. Questa sicuramente è una delle ragioni principali che stanno alla base di misure impopolari come la riforma delle pensioni o anche l’abolizione dell’articolo 18. Sono stati effettuati inoltre alcuni tagli di tipo “lineare” alle spese dello stato e al welfare mentre di un reale incremento dell’efficienza e della qualità della spesa (spending review) si sono perse le tracce per strada.

Crisi, tecnologia e diseguaglianza

Viene da chiedersi però, passato il momento dell’emergenza, quando e se finalmente arriverà il turno di pagare per i soggetti economici più forti. Si è spesso affermata una narrazione secondo la quale la crisi sarebbe colpa dei lavoratori, della loro inefficienza e “pigrizia”, nonché degli sprechi della spesa pubblica. Certamente esistono diversi del genere. D’altra parte assistere a una dialettica così critica verso le posizioni dei salariati e dello stato sociale lascia molto perplessi qualora si rifletta sulla mancanza di un giudizio altrettanto severo quando si parla di imprese. Grandi multinazionali come Google ed Apple praticano arbitraggi fiscali a dir poco clamorosi e sono in grado di eludere il fisco ricorrendo a transfer price dubbi per somme consistenti. Siamo certi che andare in pensione a 67 anni ed abolire l’articolo 18 per incentivare l’attività economica di soggetti che fanno un ricorso massiccio all’esternalizzazione (con il risultato che spesso il lavoro è svolto con costi e tutele irrisorie) e all’elusione fiscale (si pensi al caso irlandese) sia il modo migliore per costruire il modello di società e di futuro migliore per noi e per i nostri figli? Se da un lato la tecnologia indubbiamente progredisce sembra d’altro lato che un sempre maggiore sacrificio sia richiesto alla classe lavoratrice. Che senso ha? Dov’è il benessere che dovrebbe creare il progresso tecnologico?
È giusto tenere conto delle esigenze del sistema economico e delle istanze che provengono dalle aziende. Ciò storicamente avviene nel dibattito politico scendendo a compromessi tra chi rappresenta i diversi interessi presenti nella società. Negli ultimi anni invece una logica di paura e di sacrifici necessari ha estromesso la rappresentanza di una parte della società dal confronto politico e a livello globale il potere contrattuale si è notevolmente spostando verso la parte di chi ha di più. La tecnologia sta esasperando questa situazione perché, rendendo meno necessario il lavoro umano, sposta l’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro a favore delle imprese.
Questo processo politico di redistribuzione delle ricchezze ha anche ricadute economiche su cui occorre riflettere. L’eccesso di diseguaglianze all’interno della società mina lo stesso corretto funzionamento dell’economia: coloro i quali hanno un reddito alto spendono una frazione inferiore per i consumi e ne risparmiano invece una parte consistente e molto più ampia di quella di un appartenente alla classe media o bassa. Non sarà una ristretta élite di ricchi ad alimentare i consumi se la massa dei consumatori sarà troppo povera per consumare.
In conclusione la diseguaglianza non esiste di per sé ma è una conseguenza delle politiche che vengono adottate per definire gli assetti proprietari e del mercato del lavoro. L’emergere sempre più forte del problema della diseguaglianza pone sia interrogativi morali riguardo la divisione della ricchezza sia economici riguardo la sostenibilità del consumismo in una realtà economica sempre più polarizzata. Per questi motivi la progressiva scomparsa della sinistra dallo scenario politico è un problema anche economico in quanto aumenta lo squilibrio nella contrattazione politica per la definizione degli assetti proprietari e li rende sempre più diseguali.
Fonte: pandorarivista.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.