La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 30 maggio 2017

Note per una politica industriale


di Lorenzo Cattani e Enrico Cerrini 
Il tema della politica industriale ricorre da alcuni anni nel dibattito politico internazionale. L’incrinarsi della certezza che il libero mercato fosse la soluzione a tutti i problemi ha riportato nel dibattito pubblico il tema dell’intervento statale in economia e della tutela del tessuto manifatturiero. Sfortunatamente, le risposte più popolari non appaiono utili a reindirizzare il dibattito. Donald Trump riceve la simpatia di parte dell’opinione pubblica del suo Paese grazie al vago tentativo di imporre dazi indiscriminati per proteggere l’industria americana da prodotti cinesi ed europei.
Sfortunatamente, questa politica potrebbe causare vere e proprie guerre commerciali oltre a risultare in ultima analisi fallimentare, dato che la crisi occupazionale appare determinata anche da fattori come la scarsa domanda interna, legata alla sofferenza della classe media nei paesi occidentali oltre che dai trend demografici.
Eppure, tra i personaggi più influenti nella cerchia del Presidente americano c’è quel Peter Thiel, fondatore di Paypal, che accusa la politica americana di non aver programmato a sufficienza lo sviluppo tecnologico del paese. Senza programmazione, le aziende private si sono concentrate sullo sviluppo del settore software, di realizzazione molto più facile rispetto alle innovazioni legate all’hardware. Così facendo, si è dato vita ad un tipo di innovazione – si pensi alle nuove funzionalità dei social network o a nuovi tipi di applicazioni – mentre innovazioni di portata più significativa –  le macchine volanti – restano un sogno lontano.
Per riaprire il dibattito sulla politica industriale, si dovrebbe discutere della totale assenza di una programmazione statale che ha lasciato spazio ad un’inadeguata programmazione privata, causando gravi difficoltà al comparto manifatturiero. Nel caso italiano, è interessante paragonare i dati Istat del 2017 con quello che Pierluigi Ciocca scrive del tessuto imprenditoriale negli anni antecedenti alla fondazione dell’IRI. I dati del 2017 confermano l’intuizione secondo cui le grandi imprese sono in affanno soprattutto per la loro poca recettività verso il cambiamento tecnologico ma, allo stesso tempo, restano in grado di pianificare buone strategie imprenditoriali, che permettono loro di creare valore aggiunto. Al contrario, le PMI non hanno ottenuto risultati altrettanto buoni, pur registrando valori positivi, soprattutto per quanto riguarda medie imprese, sul cambiamento tecnologico.
Descrivendo la situazione dell’industria italiana negli anni Trenta del XX secolo, Ciocca afferma che non vi era una «salda connessione fra i tre blocchi del sistema produttivo: la moltitudine delle microaziende, con la tendenza a restare tali raramente tentando il superamento della ditta familiare; la bassa quota delle aziende medie propense ad accettare il rischio del ricercare l’innovazione e sperimentarla; la rarità della grande impresa in grado di lanciare su larga scala le produzioni innovative più promettenti, così da diffondere i benefici del progresso tecnico in un mercato di massa».
In assenza di un’importante programmazione pubblica sembra quindi di assistere alla riproposizione, con le dovute differenze storiche, di problematiche molto simili a quelle osservate in passato, che farebbero pensare alla necessità di ripensare il ruolo del pubblico nel capitalismo italiano. I grandi settori industriali del Novecento, come il siderurgico e il petrolchimico, appaiono avviati verso un triste declino. Additati come altamente inquinanti, soffrono una durissima crisi occupazionale a cui sopravvivono solo pochi reparti di eccellenza, malgrado le notevoli risorse pubbliche che ne avrebbero dovuto finanziare la riconversione e riqualificazione.
La galassia delle piccole e medie imprese, sebbene abbia mostrato una buona performance negli ultimi anni, non sembra in grado di poter trainare l’economia italiana. In questo caso, le conoscenze dei lavoratori rappresentano il principale fattore di creazione di valore aggiunto del prodotto finale. Al momento, queste conoscenze sono per lo più rappresentate dal sapere artigiano, ma il quadro potrebbe cambiare radicalmente con la rivoluzione tecnologica in atto. In un tessuto industriale sempre più connesso virtualmente, la robotica potrebbe affiancare la manodopera come garanzia di flessibilità della produzione e lo sviluppo di “Internet of Things” potrebbe generare una quantità di dati inimmaginabile fino a poco tempo fa. In questo contesto, attività fondamentali per le PMI potrebbero diventare la ricerca e l’analisi dei dati, i cui costi potrebbero rivelarsi insormontabili per una singola azienda.
Questo articolo vuole fornire alcuni spunti al dibattito attorno alla politica industriale. Le tre linee di indirizzo sottostanti possono essere ulteriormente approfondite in modo da sviluppare le proposte specifiche sui singoli punti esposti nelle righe successive.

Grande impresa e politica industriale

Le grandi imprese di maggior successo radicate entro i confini nazionali sembrano essere principalmente quelle pubbliche. Una strategia nazionale potrebbe valorizzare il loro ruolo strategico, il quale si intreccia spesso con la geopolitica del nostro Paese. Dati i successi, le quote azionarie pubbliche potrebbero in taluni casi diminuire – soprattutto rispetto a quelle imprese che hanno scarso valore geopolitico come Poste Italiane -, in altri aumentare ma, complessivamente, sarebbe inopportuno svendere questo patrimonio.
Per quanto riguarda le grandi imprese private la loro azione strategica dovrebbe essere pensata in sinergia con una programmazione pubblica che sappia scegliere quali siano i settori strategici a cui il nostro Paese non intende rinunciare. La priorità potrebbe essere data alle aree di crisi industriale complessa i cui progetti di riqualificazione e riconversione dovrebbero essere coordinati tra loro, oltre che armonizzati con la politica infrastrutturale del paese. Alcune idee riguardo il polo chimico di Porto Marghera possono rappresentare un esempio esplicativo di come impostare tale politica.
Dato che l’industria chimica ha rappresentato uno dei motori di sviluppo del nostro Paese, potrebbe essere considerata uno dei settori strategici da tutelare e riconvertire. Ad oggi, nell’area di Porto Marghera sopravvivono poche attività di chimica di base che potrebbero subire ripercussioni molto negative da un aumento del prezzo del petrolio, ad oggi molto basso rispetto ai livelli storici. Si potrebbe ipotizzare una serie di incentivi fiscali per quelle imprese che decidono di compiere la transazione verso la produzione di prodotti chimici complessi oltre che pensare strategicamente gli investimenti delle imprese pubbliche interessate.
In un settore delicato come la chimica, è importante garantire la sostenibilità ambientale della produzione. La transazione verso una chimica verde potrebbe realizzarsi ad esempio attraverso la tassazione delle emissioni inquinanti e il finanziamento di investimenti e ricerca che vadano nella direzione dell’incremento della sostenibilità ambientale. Spesso ad essere carenti al fine della riconversione non sono le risorse finanziarie, ma un’adeguata programmazione di tali attività. I finanziamenti a favore della riconversione si sommerebbero a quelli destinati alla bonifica delle aree inquinate, le cui opere, in fase di stallo, avrebbero dovuto aiutare il reinserimento nel mercato del lavoro i soggetti più colpiti dalla crisi produttiva.
La programmazione dovrebbe prevedere il coordinamento dei programmi infrastrutturali. Il dibattito pubblico a proposito dell’area portuale di Venezia, ad esempio, non può concentrarsi solo sulle grandi navi da crociera ma dovrebbe anche soffermarsi sull’afflusso di merci all’area industriale. In questo senso, l’accesso potrebbe essere facilitato attraverso la creazione di strumenti moderni e ecocompatibili che permettano alle navi di non entrare in laguna, riflettendo invece sulla congruità del progetto di porto off-shore attualmente in discussione.
Tale programmazione dovrebbe riguardare anche le infrastrutture immateriali. Da un lato, lo sviluppo della banda ultralarga può favorire il flusso di una grande mole di dati tra imprese, mercato e fornitori, raccolti grazie allo sviluppo di prodotti intelligenti, che funzionano in base agli stimoli che ricevono dalla rete. Dall’altro, tali prodotti e tali dati sono suscettibili ad attacchi informatici. Di conseguenza, diventano fondamentali gli investimenti statali, magari effettuai in coordinazione con gli interessati privati, nel settore della cyber-security.

PMI e politica industriale

Tra le cause dell’assenza di coordinamento tra le PMI vi è spesso una carenza di cultura imprenditoriale (l’analisi e la ricerca di mercato sono attività che una grossa fetta di PMI ancora non conduce) e una strategia nazionale appena abbozzata. Le PMI si dovrebbero dotare di personale dirigenziale che abbia acquisito conoscenze adatte nel tracciare una strategia ad ampio respiro e che possa coordinarsi con una forza lavoro qualificata, in grado di acquisire facilmente quelle competenze specialistiche fondamentali nel processo di produzione dei beni manifatturieri. È infatti fondamentale che, alla luce dei dati Istat 2017, le PMI riescano a delineare strategie imprenditoriali che permettano guadagni di efficienza.
Dal punto di vista occupazionale, una politica industriale lungimirante dovrebbe muoversi in due direzioni. La prima è quella di superare la politica di flessibilità esterna del mercato del lavoro. Questa strategia sfrutta la flessibilità come mezzo per contenere il costo del lavoro, perseguita ad esempio tramite l’espansione del lavoro atipico. Questo sistema, al di là della valutazione necessaria delle sue implicazioni sociali, potrebbe essere efficace solo se venisse sfruttato dalle aziende per risparmiare e concentrarsi sulle attività più importanti. In Italia, però, è molto improbabile che questo possa avvenire efficacemente perché le aziende del Made in Italy necessitano di investimenti specifici nella specializzazione e nella creatività operaia, abilità che possono essere acquisite solo in azienda, con un investimento adeguato sul capitale umano.
Una soluzione potrebbe essere quella di passare da una flessibilità esterna ad una flessibilità funzionale, in cui l’impresa investe sull’aggiornamento delle competenze della propria forza lavoro e i lavoratori possono coprire più ruoli all’interno dell’azienda. L’effetto allocativo, cioè la misura in cui la forza lavoro tende ad essere allocata nelle imprese con migliore performance, è negativo per medie e grandi imprese. Solo le piccole e le microimprese mostrano dati positivi, suggerendo che il maggior grado di flessibilità strutturale faciliti la riallocazione delle risorse. In questo senso, la flessibilità funzionale, puntando a formare forza lavoro di qualità all’interno dell’azienda, potrebbe rappresentare un importante argine a questo problema.
Questo criterio sarebbe particolarmente utile nei momenti di cambiamento della struttura della domanda dei beni. In questi casi, le grandi imprese sono solite il necessario cambiamento dell’offerta di prodotti sui propri fornitori, ovvero le PMI, le quali sono di conseguenza più esposte ad una riorganizzazione del lavoro. Tale riorganizzazione potrebbe essere facilitata da forme contrattuali atipiche volte a favorire il reimpiego dei lavoratori qualificati in mansioni diverse all’interno della stessa azienda. Una forza lavoro qualificata, esperta e flessibile potrebbe fare da ponte per l’inserimento di nuovo personale in azienda (assicurandosi di inserire lavoratori sempre più qualificati), facilitandone l’inserimento, sia a livello dirigenziale che lavorativo.
La seconda direzione potrebbe essere quella di lavorare sulla fornitura di sussidi di disoccupazione finanziati dallo stato, che potrebbero essere assicurati a condizione che le parti sociali raggiungano un accordo sulla riassunzione dei lavoratori licenziati in seguito ad uno shock economico. In questo modo si verrebbe incontro sia alle necessità dei datori di lavoro, di restringere la forza lavoro per superare momenti di difficoltà sapendo che però non perderanno il capitale conoscitivo, che dei lavoratori che saprebbero di essere riassunti non appena venisse superato il momento di difficoltà. Qualora un simile accordo non venisse raggiunto, la fornitura di sussidi cadrebbe sulle spalle degli imprenditori.
Dal punto di vista strategico, lo sviluppo della rivoluzione fondata sull’utilizzo e la condivisione di grandi quantità di dati e sull’impiego di macchinari che rispondono agli stimoli della rete, necessita di colossali sforzi in ricerca e analisi dei dati. Tali attività potrebbero essere espletate da una massa di soggetti che favorisca il trasferimento tecnologico verso le PMI. In questo senso, il MIUR ha pensato otto Cluster Tecnologici Nazionali, ovvero partnership tra soggetti pubblici e privati che sviluppano progetti di ricerca aperti, in grado di essere sfruttati dalle imprese interessate. Dato che solo uno dei cluster ha avuto risultati concreti, questi strumenti potrebbero essere potenziati, aumentandone il coinvolgimento statale e snellendone la formazione e i processi decisionali. In generale potrebbe essere consigliabile incentivare la sinergia fra ricerca pubblica e privata, dove le università si occupano della ricerca di base, permettendo alle imprese di concentrarsi su quella applicata.
Sulla stessa lunghezza d’onda, appare importante una riforma dei diritti di proprietà intellettuale che liberi l’accesso a quei brevetti che possono aumentare la competitività del sistema manifatturiero.

Matching

Il coordinamento fra management e forza lavoro è cruciale per il buon funzionamento di un’economia che, come quella italiana, continua ad avere nel manifatturiero un importante punto di riferimento. L’allineamento tra domanda e offerta di lavoro è un tassello importante nel passaggio a strategie che garantiscano l’innovazione senza lasciare indietro i più svantaggiati.
La politica industriale dovrebbe assicurarsi che venga fornita una forza lavoro con buone competenze alle imprese che producono alto valore aggiunto. Le imprese dovrebbero essere incentivate ad investire su queste competenze, conferendo alla manodopera quelle abilità acquisibili durante il lavoro. Diversamente, nei settori a bassa intensità tecnologica e intellettuale, la politica industriale dovrebbe assicurare che la necessità di abbassare il costo del lavoro e di favorire l’emersione dell’economia illegale, non venga perseguita tramite relazioni contrattuali che lascino i lavoratori senza tutele.
Dal punto di vista delle imprese con produzioni ad alto valore aggiunto, bisogna notare che l’industria manifatturiera italiana non mostra percentuali occupazionali alte relativamente alla manodopera qualificata. A questo si aggiunge il problema della sovra-istruzione, che vede persone con qualifiche medio-alte accettare mansioni che sfruttano solo parzialmente le loro competenze. La formazione di un serio sistema di matching fra domanda e offerta di lavoro può essere un primo passo verso la soluzione di questi problemi.
L’obiettivo è quello di allungare la durata del rapporto lavorativo e diminuire il divario fra scuola, università e imprese, non solo attraverso la semplice alternanza scuola-lavoro. Di conseguenza, dal punto di vista dell’istruzione secondaria potrebbe essere utile investire ulteriormente nel piano dell’Anpal, il quale prevede l’inserimento nelle scuole superiori di 1.000 tutor che possano ricoprire un ruolo di “ponte” fra il mondo della scuola e il mercato del lavoro. Per quanto riguarda l’istruzione terziaria, potrebbe essere estesa ai laureati la piattaforma PhD Italents, con cui è stato finanziato il matching fra domanda e offerta di lavoro per quegli studenti che hanno conseguito il titolo di Dottore di Ricerca.

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