di Piero Bevilacqua
Occorrerà conservare in una una cineteca speciale, in un archivio dell’orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere e dei fili spinati, i fotogrammi di una guerra inimmaginabile fino a poco tempo fa e forse unica nella nostra storia. Quella che varie polizie delle vecchie frontiere d’Europa combattono contro donne, bambini, anziani, giovani, scampati alle guerre innescate dall’Occidente nelle periferie del mondo. Occorrerà conservare questi documenti di ottusa e primitiva malvagità alle generazioni che verranno perché — se i Paesi del Vecchio Continente non saranno definitivamente inghiottiti dalla barbarie — possano osservare, in tempi meno oscuri dei nostri, di che cosa sono stati capaci i loro padri e nonni.
Ma forse occorre uscire dall’ immagine indefinita che assegna a popolazioni indistinte il marchio di una così ottusa e ostinata ferocia.
La notte in cui tutte le vacche sono nere non ha mai fatto comprendere niente a nessuno. Se guardiamo ad alcuni paesi dell’Europa occidentale, come la Francia, l’indistinto di una umanità genericamente ostile e senza misericordia si scioglie. Il grande paese che ha fondato la modernità della politica, innalzando il vessillo della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità, il paese governato dai socialisti del presidente Hollande, muove oggi a Calais una sua abietta guerra contro una massa di disperati, a cui toglie perfino le misere baracche e le tende in cui era da mesi accampata. Com’è possibile, come si sia arrivati fin qui?
La notte in cui tutte le vacche sono nere non ha mai fatto comprendere niente a nessuno. Se guardiamo ad alcuni paesi dell’Europa occidentale, come la Francia, l’indistinto di una umanità genericamente ostile e senza misericordia si scioglie. Il grande paese che ha fondato la modernità della politica, innalzando il vessillo della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità, il paese governato dai socialisti del presidente Hollande, muove oggi a Calais una sua abietta guerra contro una massa di disperati, a cui toglie perfino le misere baracche e le tende in cui era da mesi accampata. Com’è possibile, come si sia arrivati fin qui?
Questa domanda non ci pone solo davanti a un generico arretramento di civiltà che oggi colpisce indistintamente l’Europa. Essa ci squaderna un fenomeno politico di prima grandezza che già la vicenda greca dello scorso anno ci aveva illustrato con desolante chiarezza. I vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, quello tedesco come quello britannico, sono stati intimamente ripuliti di ogni contenuto ideale e di valore. Le loro dirigenze hanno gettato via come vecchio tutto l’antico bagaglio di solidarietà che ha segnato la loro storia e sono diventati moderni, come vuole il capitalismo attuale e la sua razionalità neoliberista.
E’ una perdita gigantesca alla quale addebitare non poco dell’ arretramento del processo di unificazione dell’Europa. Ma non ci si può fermare alla recriminazione e allo sdegno. Occorre capire con freddezza e lucidità che cosa è accaduto e accade, tentare delle contromisure. Che cosa vuol dire per i partiti politici diventare moderni, come vuole il linguaggio pubblicitario corrente ? Moderni vuol dire essere competitivi nel mercato politico, attenti al mutare degli umori della “gente”, vale a dire i cittadini ormai interamente assimilati agli elettori quali meri consumatori di messaggi. Moderni significa cercare di vincere, contro gli avversari competitori, il campionato pluriennale delle elezioni politiche e amministrative.
Per questa via una democrazia interpretata come passiva adesione agli umori del momento, diventa una sua perversione perniciosa. E’ una novità storica rilevantissima. Un tempo i socialisti francesi – come gli altri partiti popolari- avrebbero combattuto a muso duro contro le posizioni xenofobe dei loro avversari, non solo senza cedimenti di fatto alle loro pretese, ma mettendo in atto quella pedagogia di massa che i grandi partiti popolari e di sinistra hanno esercitato per oltre un secolo. I partiti non ancora trasformati in ristretti club dominati dal ceto politico, avrebbero combattuto contro le destre xenofobe rassicurando le popolazioni, disinnescando i meccanismi della paura, mostrando perfino l’utilità economica di un ingresso rilevante di popolazione giovane nei loro vasti territori.
La Francia è uno dei paesi a più bassa densità demografica d’Europa. Ma i partiti non sono più portatori e divulgatori di conoscenze dei reali fenomeni sociali e quindi non sono più guide, ispiratori di orientamento, elaboratori di orizzonti più avanzati di civiltà. Essi corrono dietro agli imprenditori della paura, cercano di non farsi battere nella competizione messa in atto dai partiti della destra, cedendo alla loro visione generale non solo perché non hanno più alcuna visione, ma perché è mutato il fine del loro stesso agire. Questo fine – ciò è ormai chiaro sino all’ovvietà – è la loro affermazione, il loro successo e la loro sopravvivenza e riproduzione di ceto.
Come può dunque, una sinistra che non vuole arrendersi a questa disfatta storica, porre in atto forme di resistenza, allestire contromisure? Immenso problema, come sappiamo. Ma qualche strada da percorrere è già stata esplorata e occorrerebbe percorrerla con più determinazione. Oggi appare velleitario e ingenuo richiamare i vecchi partiti ai grandi valori del loro passato. La morale non si insuffla con le esortazioni e con le prediche. Ma dove vien meno la sostanza morale, il diritto è capace, se non di surrogarla, di porre qualche argine. E quel che il diritto può fare è impedire (o limitare fortemente) che la militanza politica diventi una carriera.
Non potremo mai, almeno in un prevedibile futuro, imporre a chi opera sulla scena politica di rappresentare e promuovere esclusivamente l’interesse generale, se non faremo in modo che egli sia, per legge, impossibilitato a costruire sulla politica le proprie personali fortune. Occorre limitare drasticamente la durata delle cariche pubbliche, separare queste ultime da quelle di partito, sottoporre a trasparente monitoraggio il bilancio dei rappresentanti e quello della formazione politica a cui appartengono. E cosi via. Non c’è altro modo, per sottrarre il ceto politico alla tentazione di cedere alla vie più facili per ottenere consenso e quindi di inseguire i populismi. E costituisce una strada importante per sottrarlo alle sirene del potere economico e finanziario. Occorre spezzare alla radice questo legame, che condanna la politica all’impotenza. Chi fa politica deve rispondere alle domande dei cittadini e ridiventare cittadino dopo pochi anni di impegno pubblico.
In Italia la sinistra ha compiuto su tale terreno uno sforzo di elaborazione importante negli ultimi mesi, grazie all’iniziativa di Luigi Ferrajoli e della Fondazione Basso. Occorrerebbe che queste elaborazioni trovassero una più ampia circolazione e visibilità, perché diventino un patrimonio comune, un marchio di innovazione reale del nostro schieramento.
Fonte: il manifesto
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