di Pier Antonio Panzeri
La questione della gestione dei flussi migratori sta occupando da qualche anno il centro del dibattito pubblico in Europa. Le forze politiche di destra hanno cavalcato i timori dei cittadini agitando lo spettro di una vera e propria invasione capace di alterare l’identità culturale e sociale del Vecchio continente. I successi riportati da forze xenofobe in diversi paesi, le tentazioni di tornare a vecchi nazionalismi e di abbandonare una vera e propria roccaforte dell’Europa, lo spazio di Schengen, rendono evidente come non ci sia più tempo da perdere. È importante quindi impostare nuovi termini per questo dibattito decisivo, riportando al centro anche una distinzione che spesso viene utilizzata in termini strumentali: quella tra i rifugiati e le altre tipologie di migranti.
Oggi si insiste molto sulla differenziazione tra chi arriva in Europa fuggendo da conflitti (in primis quello siriano) e chi, invece, intraprende un percorso di riscatto economico e sociale.
Se per i primi esiste la pos-sibilità di ottenere asilo seguendo una procedura relativamente chiara, per i secondi il discorso cambia. In Italia, ad esempio, poter accedere al mercato del lavoro in maniera rispettosa della legge è estremamente complesso.
Se per i primi esiste la pos-sibilità di ottenere asilo seguendo una procedura relativamente chiara, per i secondi il discorso cambia. In Italia, ad esempio, poter accedere al mercato del lavoro in maniera rispettosa della legge è estremamente complesso.
Chi si occupa di immigrazione, tuttavia, denuncia da tempo come sia difficile tracciare confini così netti: spesso i migranti economici provengono da regimi dispotici oppure sono dovuti fuggire dal proprio paese a seguito di una catastrofe ambientale. Le complesse biografie di chi approda in Europa raccontano che spesso la decisione di migrare viene presa per una compresenza di cause. In questo quadro, compito dell’Europa deve essere non solo quello di dare assistenza ai richiedenti asilo, ma anche di trovare un quadro normativo e una strategia politica capaci di offrire risposte a fenomeni stratificati e complessi.
La migrazione economica In un mondo nel quale la diseguaglianza di reddito e prospettive tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati non accenna a diminuire, la migrazione economica rappresenta un fenomeno difficile da arginare. Storicamente, le persone si sono sempre spostate alla ricerca di un futuro migliore: lo hanno fatto alcuni europei, lo fanno oggi persone provenienti da continenti che soffrono di un cronico sottosviluppo.
In questo quadro, l’Africa subsahariana è oggi l’area del mondo che detiene il maggior numero dei cosiddetti “paesi meno sviluppati”. Con questa espressione, le Nazioni Unite definiscono i poveri fra i poveri: Stati che non garantiscono ai propri cittadini nemmeno i servizi più essenziali e che soffrono di uno strutturale deficit politico ed economico. Oggi a livello mondiale esistono quarantotto paesi meno sviluppati, trentatré dei quali si trovano in Africa. È interessante soffermarsi sul fatto che il numero di questi Stati sta aumentando, anziché diminuire: un dato che fa riflettere e che dovrebbe indurci a ragionare su come lavorare a un futuro riscatto per le aree più povere del pianeta.
In Africa si sta assistendo a una serie di fenomeni che rendono la situazione sempre più difficile. L’enorme crescita demografica, il progressivo trasferimento delle persone dalle campagne alle città e il degrado ambientale sempre più diffuso sono fattori che contribuiscono alla crescita del fenomeno migratorio. A questo si devono aggiungere anche fenomeni di conflittualità e di appropriazione delle terre. In alcuni paesi africani, infatti, la lotta per le risorse ha assunto un carattere ricorrente. È il caso del Burundi, dove l’accesso alla terra rappresenta una delle principali cause di conflittualità, che si aggiunge alle questioni etniche e politiche. In queste economie ancora prevalentemente rurali, chi cede la propria terra rischia di privarsi per sempre della propria fonte di sostentamento.
A questi scontri di natura interna si somma un fenomeno di cui si parla troppo poco, quello del land grabbing, termine con il quale si definisce l’acquisizione – spesso a opera di grandi compagnie europee o statunitensi – di terre ricche e produttive che vengono sottratte ai suoi abitanti. Tale pratica, che può causare migrazioni forzate e privare delle proprie risorse popoli storicamente radicati su un determinato territorio, avviene spesso con l’avallo di governi corrotti e poco attenti a salvaguardare l’interesse dei cittadini. Nel 2014 si è svolta in Sudafrica la prima conferenza su questo tema e anche a livello europeo si sta cercando di fare chiarezza sul preoccupante fenomeno. Nel report del Parlamento europeo “Addressing the Human Rights Impacts of Land Grabbing”1 è stato evidenziato come tali appropriazioni spesso comportino inaccettabili violazioni dei diritti umani. Il fatto che vengano lesi i diritti di popoli senza adeguata rappresentanza politica e senza possibilità di far sentire la propria voce non fa che rendere ancora più urgente la ricerca di una soluzione. Non si tratta assolutamente di una battaglia astratta: l’Europa è direttamente coinvolta almeno sotto due aspetti. Da un lato, alcune compagnie europee sono protagoniste di questa nuova corsa all’oro che ha come obiettivo l’appropriazione delle terre più fertili in Africa, Asia e America Latina. I prodotti ottenuti da queste terre arrivano già oggi sulle tavole dei cittadini europei, che spesso non ne conoscono il costo in termini sociali. Dall’altro, le istituzioni europee che negoziano gli accordi commerciali spesso inseriscono clausole sul rispetto dei diritti umani e sulla transizione alla democrazia. Per coerenza, dunque, è urgente che questo fenomeno venga affrontato e che le politiche commerciali europee non diventino lo strumento di nuovi squilibri su scala mondiale. Al contrario, sarà sempre più importante che la politica estera, quella commerciale e quella di aiuto allo sviluppo dialoghino per creare un quadro di relazione con i paesi terzi strutturato e armonico. Inutile girarci attorno: finché gli squilibri economici e sociali saranno così forti, le persone andranno alla ricerca di fortuna altrove. Con un reddito pro capite di circa venti volte inferiore a quello dell’UE, l’Africa subsahariana dispone solo del 2,1% della ricchezza mondiale. In un continente così giovane e dove nei prossimi anni il 55% delle persone si trasferirà nelle metropoli, le sirene di uno stile di vita occidentale libero dalle privazioni e dai bisogni sembrano irresistibili. Stabilire una collaborazione più profonda con i paesi da cui originano i principali flussi migratori, cercando di contribuire concretamente al loro sviluppo, è uno degli elementi basilari su cui lavorare.
Le migrazioni ambientali
Nel 1970, sulle pagine dell’autorevole rivista di divulgazione scientifica “Science”, l’ambientalista americano Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, ha usato per la prima volta l’espressione “rifugiati ambientali”: nonostante ciò, ancora oggi, a quarantacinque anni di distanza, non sembra esserci accordo su una definizione univoca.
Negli anni Ottanta, il direttore dell’UNEP El-Hinnawi ha definito profughi ambientali le «persone che hanno dovuto forzatamente abbandonare le loro abitazioni per necessità temporanee o permanenti a causa di grandi sconvolgimenti (naturali e/o indotti da mano umana) che hanno messo in pericolo la loro esistenza o danneggiato seriamente la loro qualità di vita». El-Hinnawi distinse tra tre tipi di rifugiati: a) persone che si spostano temporaneamente a causa di stress ambientali dovuti a disastri sia naturali sia provocati dall’uomo ma che successivamente possono tornare nei luoghi di provenienza per iniziare la ricostruzione; b) persone permanentemente spostate e ricollocate in altre aree. Questi gruppi di sfollati subiscono gli effetti di disastri causati da progetti di sviluppo (come le grandi dighe) e da disastri naturali irreparabili; c) persone che si spostano provvisoriamente o permanentemente perché non possono più sostentarsi con le risorse della loro terra a causa del degrado ambientale. Negli anni Novanta, l’ambientalista inglese Norman Myers, considerato uno tra i più autorevoli esperti in materia, definisce i profughi ambienta-li come «persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine a causa di fattori ambientali di portata inconsueta e che, di fronte a queste minacce ambientali, ritengono di non avere alternative se non la ricerca di sostentamento altrove, sia all’interno del proprio paese che al di fuori dei suoi confini, con stanziamento semipermanente o definitivo».2
Come si può notare, dunque, tutte queste osservazioni, fatte in tempi diversi, mettono a fuoco la correlazione tra cambiamenti climatici e migrazioni. Ed è su questa base che l’Unione europea ha iniziato a tracciare un percorso indirizzato a trovare una definizione univoca, la più chiara e intellegibile, dello status giuridico per i migranti climatici, necessario per affrontare questa nuova sfida. Per molte persone dei paesi meno sviluppati, il cambiamento climatico, quindi, è una minaccia concreta.
Il report di Legambiente “Profughi ambientali. Cambiamento climatico e migrazioni forzate”3 si concentra sugli effetti devastanti che i fenomeni estremi stanno avendo sulla vita di molte popolazioni. Le conseguenze economiche e sociali degli eventi eccezionali (alluvioni, uragani, siccità estreme) sono più forti e incontrollate proprio nei paesi che non hanno adeguati strumenti di tutela del territorio. Prendendo a riferimento il 2012, ad esempio, vediamo che in quell’anno si sono verificate 310 calamità naturali che hanno portato a più di 9300 morti, 106 milioni di persone colpite e un danno economico stimato pari a 138 miliardi di dollari. Sempre nel 2012 sono state 32,4 milioni nel mondo le persone costrette ad abbandonare la loro casa in conseguenza di disastri naturali. Il 98% di queste persone vive nei paesi più poveri e non può contare sull’assistenza dello Stato per ricostruire la propria vita dopo il disastro. Secondo l’UNEP, nel 2060 nel solo continente africano ci saranno circa 50 milioni di profughi climatici.
L’esito degli ultimi negoziati sul clima a Parigi fa sperare che forse si stia entrando in una nuova fase di consapevolezza e responsabilità condivisa e che i danni del surriscaldamento terrestre possano essere limitati. Ma c’è anche un importante lavoro da fare sul fronte del degrado ambientale. Deforestazione, inquinamento del suolo e desertificazione sono altrettante cause che spingono le persone ad abbandonare il proprio territorio di origine cercando nuove fonti di sostentamento. Ancora una volta, questi spostamenti possono sfociare in conflitti locali per il controllo di nuove terre o nella decisione di intraprendere una migrazione verso luoghi con migliori prospettive di vita, come l’Europa. L’inquinamento del territorio compromette le possibilità di sostentamento di intere comunità e spesso si lega all’attività imprenditoriale di aziende provenienti da Stati Uniti, Cina ed Europa. Il caso del Delta del Niger è emblematico ed è stato evidenziato da numerose organizzazioni non governative, come Amnesty International. L’ambiente del Delta, un ecosistema complesso e prezioso, da anni è colpito da fuoriuscite di petrolio, scarico di rifiuti e torce di gas (che viene bruciato durante il processo di estrazione). La contraddizione è lampante: da un lato le compagnie estrattive nigeriane e occidentali traggono profitto dalle risorse del territorio, dall’altro gli abitanti vivono in condizioni di povertà e in un ambiente degradato. In questo caso è opportuno che l’UE si interroghi su come promuovere e certificare la responsabilità sociale di impresa. L’attività imprenditoriale dovrebbe essere un volano di sviluppo, orientata al sostentamento delle popolazioni più vulnerabili e non un’ulteriore minaccia all’ambiente e ai diritti umani.
Migrazioni economiche e ambientali: le risposte europee
Dal quadro fin qui tracciato alcuni elementi iniziano a chiarirsi. Sottosviluppo, degrado ambientale e ricerca di un avvenire migliore sono gli elementi che contribuiscono al persistere di importanti flussi migratori. Esiste anche un altro fattore sottovalutato, ed è quello della professionalizzazione delle reti illegali per il trasporto dei migranti. In alcuni snodi del continente africano e non solo esistono ormai vere e proprie agenzie di viaggio per l’immigrazione. Questi moderni tour operator della disperazione hanno ottimizzato le fasi del trasporto sfruttando i varchi aperti dall’instabilità regionale e traendo profitto dalla carenza di canali legali di migrazione.
Ed è anche su questo punto che emerge un’incontestabile rilevanza delle politiche europee nel governare le migrazioni. Da tempo ormai si parla di una strategia che si appoggi su diversi pilastri.
Accordi commerciali e di partenariato economico In passato, talvolta, è prevalsa la volontà di ottenere vantaggi commerciali per l’Europa a discapito di paesi più deboli dal punto di vista economico e politico. Questo atteggiamento si è dimostrato privo di visione: è soltanto aprendo reali prospettive di sviluppo che si creano condizioni che convincono le persone a restare nel proprio paese. Accordi commerciali giusti e attenti alle specificità dei paesi partner sono il primo passo e devono tenere conto di clausole sociali e ambientali, compresa la lotta all’appropriazione massiccia delle terre.
Sistemi per la circolarità della migrazione Collaborazioni in ambito educativo, formativo e culturale consentono già importanti scambi fra l’Europa e alcuni paesi partner, in particolare nell’area del Mediterraneo. Spesso i paesi poco sviluppati non hanno la possibilità di investire in ricerca e istruzione di qualità e questo non consente la crescita di una classe politica e sociale capace di innovazione e iniziativa. Per questo sarebbe importante investire su sistemi che consentono a persone provenienti da altre parti del mondo di entrare in Europa per acquisire conoscenze e competenze e di tornare nei loro paesi con un importante know-how che può contribuire al benessere collettivo.
Aiuto allo sviluppo e cooperazione internazionale Anche su questo aspetto si deve fare di più. Vanno ricercati metodi di cooperazione che consentano di uscire dalla spirale dell’assistenza che purtroppo si è instaurata in molti paesi storicamente sottosviluppati e producano un forte spirito per iniziative economiche e sociali da un lato e dall’altro una maggiore propensione a progetti di integrazione regionale.
Infine, un dato non banale: il Vecchio continente è vecchio davvero. E avrà bisogno, nei prossimi anni, di una crescita demografica tale da sostenere sistemi previdenziali e assistenziali sempre più costosi. Per questo è facile immaginare che i migranti giocheranno un ruolo sempre più importante nella nostra società. Un nuovo modello di integrazione e inserimento economico-sociale può e deve essere immaginato anche su scala europea, sulle buone pratiche, da aggiornare, di quei paesi che nell’arco del tempo hanno dimostrato di saper accogliere le persone e valorizzarne professionalità e talenti. Vincendo così una sfida difficile e dimostrando che, se governata, anche l’immigrazione può diventare un’opportunità per i paesi che ne sono destinatari.
Note
[1] Directorate-General for External Policies of the Union, Addressing the Human Rights Impacts of “Land Grabbing”, dicembre 2014, disponibile su www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2014/534984/EXPO_STU(2014)534984_EN.pdf
[1] Directorate-General for External Policies of the Union, Addressing the Human Rights Impacts of “Land Grabbing”, dicembre 2014, disponibile su www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2014/534984/EXPO_STU(2014)534984_EN.pdf
[2] N. Myers, Esodo ambientale. Popoli in fuga da terre difficili, Edizioni Ambiente, Milano 1999, p. 18.
[3] M. Gubbiotti, T. Finelli, E. Peruzzi, M. di Vara, Profughi ambientali. Cambiamento climatico e migrazioni forzate, Legambiente, luglio 2013, disponibile su www.legambiente.it/sites/default/files/docs/dossier_profughi_ambientali_1.pdf
Fonte: italianieuropei.it
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