di Pietro Barcellona
Il problema della vita, o meglio del potere sulla vita, ovvero del rapporto tra vita e potere, che per un lungo periodo della storia umana è stato relegato alla dimensione privata e domestica della riproduzione, nonché agli aspetti biologico-naturali dell’evoluzione, è diventato la posta in gioco del nostro tempo. Mentre l’epoca precedente è stata caratterizzata dal dominio della natura, oggi quest’ultimo si presenta come dominio della vita.
La posta in gioco
Il dominio della natura significa mettere a profitto un terreno, costruire una città; il dominio della vita consiste invece nel sostituire la natura nei meccanismi del vivente. Ci si riferisce qui non tanto alle questioni dell’eutanasia e dell’aborto, quanto al tema della produzione della vita a mezzo della tecnica, ovvero attraverso tecniche di manipolazione e di appropriazione del vivente.
Si tratta di una novità assoluta, non solo perché si infrange il tabù della sacralità della vita umana, come sono stati infranti altri tabù nella storia, ma perché si afferma un processo di frantumazione dell’individuo. A questo proposito, Sara Ongaro, nel volume Le donne e la globalizzazione (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001) esprime una serie di opinioni controcorrente.
Il controllo della maternità non rappresenta a suo avviso un’evoluzione della libertà delle donne, ma è un fatto che aumenta invece l’uso del corpo delle donne in termini economici, e perciò risulta ascrivibile alla categoria della mercificazione della vita, con due implicazioni. La prima consiste nella considerazione dell’individuo non più come un tutto organico, in cui gli aspetti psicologici ed intellettuali sono tutt’uno con il corpo, ma come soggetto divisibile in più parti, per cui oggi diventa possibile vendere i propri prodotti organici, dallo sperma agli ovuli.
Ciò trasforma – nella visione moderna di proprietà – il concetto di bene giuridico, che non riflette più una visione naturalistica dell’utilità, ma al contrario è una creazione del potere giuridico, presupponendo che un segmento del processo riproduttivo, prima non concepibile isolatamente, divenga oggi separato e quindi appropriabile.
La seconda implicazione è rappresentata dal processo di inserimento del ciclo vitale nella logica della mercificazione capitalista. Si rovescia così il rapporto tra le due sfere della produzione e riproduzione enunciato nella tradizionale visione marxiana, secondo cui la riproduzione, quale fenomeno di crescita dell’umanità, sarebbe sottoposta alle leggi della produzione. Oggi, al contrario, la sfera realmente “produttiva” di ricchezza e profitto appare quella riproduttiva, il cui controllo sta diventando il campo di battaglia strategico delle grandi imprese. Sempre secondo l’autrice, quando si fa penetrare il diritto, la moneta, la logica economicista dentro un certo ambito delle relazioni umane, questo ambito cambia natura, entra nel campo del mercato e della mercificazione. Infatti, a differenza di ciò che trasmettono i messaggi dominanti, non sono la generosità o il desiderio di genitorialità che governano la sfera riproduttiva, ma gli interessi dei grandi gruppi economici, in base ai quali è persino immaginabile che si possano produrre figli senza che ci siano due persone fisiche concretamente in rapporto. Perciò, la sfera riproduttiva può essere considerata il “petrolio del futuro”.
Di pari passo, si sta sviluppando il controllo del processo vivente della natura, attraverso il sistema dei brevetti sui prodotti, in particolare sulle sementi, da parte delle multinazionali. Viene introdotta una logica mercificatoria, e quindi capitalistica, in tutto ciò che prima era considerato natura e vita. Siamo di fronte a una trasformazione antropologico-genetica dell’uomo, che è in grado di manipolare i processi vitali: la posta in gioco è la vita.
È possibile sostenere, con Ongaro, che tale processo trasformativo riguarda particolarmente la condizione della donna, che si trova ad essere oggetto di una nuova soggezione storica, poiché tutti gli esperimenti che riguardano la riproduzione della vita (utero in affitto, donazione di ovuli) passano attraverso il corpo femminile. Così la donna, mentre pensa di emanciparsi nella propria condizione avanzando il diritto ad avere un figlio, diritto aberrante poiché si configura come pretesa di appropriazione verso qualcuno che non ha diritto di parola, sta in realtà diventando ella stessa un oggetto nelle mani degli attori dominanti del processo di manipolazione del vivente.
Inoltre, l’attuale condizione di nuova soggezione femminile assume ulteriori caratteri:
I) la diffusione su larghissima scala del lavoro delle donne, che rappresenta ormai nel terzo e quarto mondo l’80% del totale; la forma di sfruttamento di massa del lavoro nella globalizzazione è quindi più femminile che maschile;
II) il fenomeno della prostituzione di massa, quale vero e proprio processo di oggettivazione mercificata delle donne; i dati sulla tratta e sullo sfruttamento sessuale femminile sono impressionanti;
III) l’introiezione avvenuta nella cultura occidentale di un modello di disprezzo del lavoro domestico: la donna casalinga ha perso identità e dignità, con un incremento dei casi di depressione, alcolismo e suicidi. Vi sono casalinghe che muoiono di tristezza, perché la società nella quale un tempo il lavoro familiare femminile godeva di prestigio e di autorità, oggi considera tale attività limitante e degradante;
IV) la fuga delle donne verso attività di tipo maschile, nelle fabbriche come nei ruoli manageriali, che implica la sottomissione alle logiche della competenza e della competizione, caratteristiche del mercato del lavoro maschile;
V) la diffusione nelle società occidentali del lavoro femminile di cura, non finalizzato alla produzione: una forma di servitù nuova, che supplisce alle assenze delle responsabilità familiari nelle situazioni di bisogno e solitudine; un prendersi cura di condizioni terminali da parte di donne che sostituiscono altre donne in fuga dalle proprie funzioni tradizionali di collante affettivo nella famiglia e nella comunità.
Un processo realmente rivoluzionario investe quindi il corpo femminile, che diviene una sorta di laboratorio vivente della trasformazione del capitalismo, orientata a sostituire la produzione di beni inanimati con la produzione di processi viventi. I processi di mercificazione della vita riguardano anche il sistema dei brevetti, la commercializzazione delle intelligenze, rendendoci tutti apparentemente più liberi, in realtà molto più sottomessi.
In tutti i campi siamo di fronte a un processo di trasformazione di così ampia portata che pone una serie notevole di problemi dal punto di vista filosofico: come si fa a costruire quale soggetto della conoscenza un individuo che va in frantumi? Più si prosegue in questo campo, più ci si accorge dei rischi connessi alla decomposizione dell’idea “tradizionale” dell’uomo. Essa mette in discussione in modo crescente questo famoso soggetto, titolare della rappresentazione e del metodo, perché esso è andato in pezzi, e non sappiamo fino a che punto le cose che pensa e dice sono frutto della sua elaborazione personale e non invece il risultato di una sua trasformazione in mero prodotto di manipolazioni informatiche. Il vero problema è ormai la conoscenza della realtà, il suo metodo. Nelle epoche precedenti, gli avvenimenti erano trasmessi dalle testimonianze dirette. L’attuale battaglia per il controllo del processo vivente sta ponendo problemi enormi alla filosofia, al diritto e alla politica. Tutto è rimesso in discussione, a partire dalla definizione delle grandi categorie di soggetto, verità, morale, natura, cultura.
In realtà la biotecnologia ha modificato in radice il concetto di vita, mettendo nelle mani dell’uomo non solo un potere manipolativo, ma la possibilità di creare ex novo un progetto vivente.
Riporto un brano di Roberto Marchesini, che fornisce un’ottima analisi del progetto del post o trans-umanesimo.
«L’aspetto più innovativo del transumanesimo consiste nell’ammettere che animali, alieni, esseri artificiali, ibridi cyborg o teriomorfi, intelligenze disperse possano costituire accanto all’uomo un’unica comunità edonistico-cognitiva, avendo a disposizione un vasto repertorio di possibilità in cui metamorfizzare. Queste potenzialità vengono viste inoltre in modo dinamico e temporaneo, ossia come passaggi transitori e transitivi a disposizione dell’individuo: servono cioè ad accontentare la fame di piacere e di conseguenza propria del post-uomo. Ricorre nella proposizione transumanista l’idea di una soggettività a tutto tondo, in grado cioè di acquisire a pieno titolo i fili del proprio destino. […] Il nuovo strumento di salvezza non è più la fede, il rifugio in una realtà metafisica immune e al di fuori del dominio normativo della natura naturans, bensì la tecnologia, nuova fucina di soteriologie individuali e, come abbiamo visto, egoteistiche.»
Come è facile constatare, l’“edonismo cognitivo” è il contrario della “coscienza infelice” che segna la storia dell’Europa dalle sue origini, dall’affermazione greca “meglio non essere mai nati” al lamento leopardiano “funesto a chi nasce è il dì natale”. Il concetto di “coscienza infelice” comprende il dolore individuale che accompagna la crisi della soggettività moderna. Questo dolore è la realtà più elementare che descrive la letteratura moderna come risposta critica all’insufficienza o alla contraddizione del mondo e della vita, che il razionalismo filosofico del XVII e del XVIII secolo avevano cercato di “rinnovare”. Ma proprio nella misura in cui assume questa esperienza del dolore, la filosofia che analizza l’insufficienza storica del soggetto razionale moderno non può essere trattenuta nella sua stabilità ermeneutica. Il dolore oppone sempre resistenza all’oggettivazione che lo determina, e non c’è infelicità senza ribellione. Le figure della coscienza infelice anticipano, in qualche modo, le figure della coscienza ribelle, poiché la critica della soggettività razionale che presentano, contiene già gli elementi di una nuova soggettività.
La sofferenza umana non è una realtà isolata nella sua solitudine o nell’imprigionamento sociale. Possiede una dimensione istituzionale, spirituale, sociale. Ciò vale anche per Hegel quando, per esempio, si riferisce all’anima cristiana come figura specifica della coscienza infelice, giacché la sua realtà strutturale e interiore è, al tempo stesso, determinante come caratteristica di un’epoca data. Ugualmente storica è, in questo senso, l’analisi del dolore nella figura del servo hegeliano, che forma e trasforma il mondo, che dissolve la realtà naturale per convertirla in umana, ma compie tutto ciò come atto che deriva da una volontà estranea, e soffre questa umiliazione e questa alienazione.
Il nichilismo giuridico
Le trasformazioni di civiltà a cui si è accennato coinvolgono anche il campo delle scienze giuridiche e dei suoi assi fondamentali: il metodo, il soggetto e la norma.
A proposito del primo, si può richiamare la tesi di Natalino Irti, il quale, in uno scritto su Nichilismo e metodo giuridico, avanza una critica alla visione tradizionale che considera il metodo giuridico uno strumento per la conoscenza del diritto, utilizzabile come un utensile con il quale il soggetto tratta l’oggetto. La teoria generale, infatti, ritiene che qualsiasi norma sottoposta al trattamento del metodo si purifica ed entra nella dignità logica del diritto. Irti sostiene che tale impiego del metodo tradizionale tradisce l’intenzione di salvare un mondo ormai tramontato, e che, all’aurora di un mondo nuovo, le norme giuridiche al pari di qualsiasi bene sono prodotte, vengono dal nulla e possono essere ricacciate nel nulla. In questa nuova visione, le norme non avrebbero alcuna ragion d’essere se non quella dell’adeguamento funzionale alla contingenza. Ciò è confermato dalla teoria dei sistemi, che attribuisce valore ad un elemento non sulla scorta della sua natura sostanziale, quanto in base alla funzione da esso svolta all’interno del sistema. Tale visione funzionalista, naturalmente, dipende dalla contingenza, poiché se una cosa non ha valore per sé, non ha neanche sostanza, e ciò che non ha sostanza non è necessario; quello che non accade secondo necessità accade secondo il caso e quindi risponde alla contingenza.
Le mutazioni del soggetto giuridico e delle norme, invece, sono legate alla nuova natura del capitale. Che cosa accade, infatti, in una società in cui la conoscenza della vita, del ciclo biologico, e non l’erogazione della forza lavoro, rappresenta la risorsa che produce direttamente profitti? L’invenzione del mondo virtuale si muove in direzione della manipolazione della mente, cioè della ricostruzione dei processi elettro-chimici, il cui scopo è la riproduzione delle funzioni del cervello. Allo stesso modo in cui la manipolazione della vita sta mettendo in dubbio uno dei presupposti della tradizione occidentale, cioè la sacralità del processo procreativo, l’intelligenza artificiale sta mettendo in dubbio la rilevanza del cervello. Ciò comporta, naturalmente, una serie di ricadute sul diritto. Come immaginiamo il soggetto di diritto, o le stesse norme, in un contesto regolato da interventi tecnologici sulla vita e da processi sostitutivi delle funzioni celebrali degli uomini con artifici svolgenti le stesse funzioni? Il matrimonio tra intelligenza artificiale e neuroscienze sta progressivamente evidenziando che il processo appena descritto si configura come naturale ed evolutivo. Si tratta di una trasposizione del darwinismo sul terreno dell’intelligenza risultante dalla riproducibilità tecnica dei processi mentali.
A tal riguardo, un recente volume di un filosofo della mente, Dennett, intitolato L’evoluzione della libertà, evidenzia come il processo di cui sopra costituisca in realtà il risultato dell’evoluzione naturale che sta per produrre il super-uomo, protesi perfetta tra corpo umano e macchina intelligente. Post-umano, infatti, non è altro che l’uomo inserito nel processo evolutivo e potenziato dal rapporto con la macchina. Una forma di intelligenza superiore prodotta dagli uomini stessi, dalla connessione delle intelligenze all’opera nella rete.
Secondo questa visione, che cosa rimane della tradizionale rappresentazione dell’uomo come essere razionale compatto ed essenzialmente libero? Si tratta di una domanda fondamentale che comporta dei riflessi sul mondo normativo, il quale ha senso solo in presenza della libertà dell’uomo. Il vero problema diventa, dunque, la libertà.
Il libro di Dennett è inquietante perché fino ad oggi abbiamo pensato alle norme come ad una sorta di limite alla libertà, alla violenza. Le norme, in altre parole, hanno avuto la funzione di addomesticare la libertà originaria, quella di cui scrisse anche Hobbes. Il mondo umano è regolato dalla libertà, contrariamente a quello naturale, dominato dalla necessità.
Il determinismo, secondo Dennett, non va letto rigidamente secondo il principio di causalità, ma evolutivamente come un progetto della natura. Tale progetto, per realizzare l’obiettivo primario dell’aumento della vita – intesa come tutto ciò che si contrappone all’inorganico –, sfrutta una sorta di razionalità immanente, intesa come calcolo delle possibilità rispetto a una situazione definita. Il determinismo è, in un certo senso, legato a una necessità che non produce l’ineluttabile; anzi, l’ineluttabile diventa assolutamente eluttabile – continua Dennett – se si considera la vita di ogni organismo all’interno di un quadro di possibilità.
Il sistema immunitario, per esempio, funziona a prescindere dalle nostre intenzioni. Riceve gli input negativi dall’ambiente e seleziona le risposte sulla base dei processi di apprendimento. In tale ottica, il darwinismo può essere letto non come la legge del più forte, ma come il funzionamento razionale della natura, che, in una situazione complessa, rende possibili determinate scelte secondo un calcolo di convenienza. La verità – come pensa Castoriadis – è che la ragione calcolante è un tipo di intelligenza che si ritrova pure in natura; ecco perché essa non può venir pensata come l’ottusità in opposizione alla lucentezza della ragione.
Secondo Dennett, la natura ha progettato che tale capacità di ragionamento calcolante debba evolvere verso un livello superiore: quello umano. In realtà, il mondo umano possiede qualcosa in più, come il linguaggio, che gli permette di produrre cultura, ossia memoria; la cultura non è però contrapposta alla natura, bensì ne è un prodotto che serve a memorizzare l’esperienza degli uomini. Ne deriva che gli esseri umani, avendo a disposizione il linguaggio e le parole, possono creare una specie di memoria collettiva che aiuta la specie nella sua totalità a produrre sempre di più calcoli e previsioni per incrementare le possibilità di vita. Addirittura, il libro di Roberto MarchesiniPost-human sembra alludere a una possibile eternizzazione dell’uomo.
Il sogno delle neuroscienze
Il sogno delle neuroscienze è di immaginare una sorta di fusione tra natura e intelligenza artificiale tale da determinare il trascendimento del biologico. Il biologico viene prolungato nella cultura, giacché reca in se stesso immanenti le leggi dell’intelligenza artificiale, cioè l’intelligenza calcolante. Una tale visione dell’intelligenza calcolante è paragonabile ad una specie di processo universale autopoietico, cioè di autosviluppo delle possibilità di vita.
In questo senso, Varela e Maturana, hanno certamente fornito un contributo notevole al progresso delle neuroscienze, teorizzando l’autorappresentazione del mondo come un insieme correlativo e rovesciabile di sistemi e ambienti, definita da Luhmann “teoria del sistema sociale”. Secondo tale impostazione, ogni sistema rappresenta un organismo, un’unità: “l’accettazione del caso, dell’occasionale, è una sola risposta dinanzi al tramonto delle antiche false unità […] Bisogna lasciarsi vivere nella contingenza”. Sulla scia di queste considerazioni, Irti, nel saggio citato conclude: “noi giuristi non siamo innanzi a questo mondo, ma dentro questo mondo, dove domina la dimensione planetaria della tecno-economia e dove tutti debbono lasciarsi misurare da criteri omologanti e rendersi conforme ed uniforme, perché insieme con la identità dei luoghi è perduta l’identità degli uomini considerati oramai semplici funzionari del mercato o dell’economia”. Il metodo risulta pertanto inutile perché non ha senso cercare la norma giusta o la giustizia dietro la norma, ma bisogna limitarsi a capire le funzioni, restando all’interno di questo quadro.
Mentre in passato, ad esempio, la responsabilità si fondava sulla morale, sulla colpa, oggi prevale una sua concezione come sistema di allocazione del rischio che, dunque, non tiene conto né del soggetto-uomo né tantomeno di una superiore normatività. Allo stesso modo, le neuroscienze identificano la mente con il cervello sulla base di una visione evolutiva del determinismo, cioè capace di interpretare adattamenti.
Dal punto di vista giuridico, tutto questo produce l’esistenza di sovra-determinazioni che rendono impossibile l’individuazione di un principio di causa necessitante. In questo caso, si parla di causa sufficiente ma non necessaria. Il determinismo, quindi, può coesistere con una causa sufficiente perché può “giocare” sulla molteplicità dei fattori causali. Si tratta di un determinismo non rigido ma compatibile, per certi aspetti, con un’idea di libertà selettiva, cioè finalizzata allo sviluppo di calcoli sempre più perfezionati e funzionali alla sopravvivenza. Tale discorso corrisponde, dal punto di vista sociale, alla teoria sistemica (Luhmann); dal punto di vista filosofico, alla teoria di Toni Negri, il quale sostiene la sola esistenza del singolo nel sistema e, riprendendo il discorso di Foucault sulla bio-politica, come puro corpo e apparato sensoriale.
In una visione determinista, la globalizzazione, per esempio, potrebbe rappresentare un’ipotesi di standardizzazione, eppure la realtà dimostra che le culture resistono e diventano sempre più arcaiche. Qualsiasi aspetto della vita si prenda in considerazione (alimentazione, accoppiamento, educazione dei bambini), si evidenzia la persistenza di diversità all’interno delle società a partire dalle concezioni del tempo e della storia. L’eterogeneità delle forme di vita, delle forme di civiltà, di costruzione immaginaria e socializzazione sono allora dei veri e propri processi culturali. L’immaginario costituisce la connotazione di fondo di un’epoca: per esempio, la modernità, contrariamente ad altre, è stata l’epoca della centralità del lavoro.
Risulta pertanto paradossale che la massima aspirazione degli uomini occidentali, edificatori di una civiltà specifica a partire dal rapporto io-mondo e dall’idea di libertà creativa, sia oggi quella di ridursi a parte integrante di un processo puramente biologico.
L’uomo occidentale sta costruendo una teoria della libertà apparentemente illimitata ma che si rovescia in assenza di libertà o, meglio, in una libertà senza forme.
In definitiva, l’Occidente, in un primo momento, ha inventato un paradigma creativo, il rapporto io-mondo; successivamente, di fronte all’angoscia della morte, dell’Io, ha prodotto un’immensa storia di neutralizzazione dello specificamente umano.
La strategia dei diritti
In questa prospettiva la “strategia dei diritti”, iscrivendosi nella grande narrazione del progresso come benessere economico e “apparato” pubblico di “cura”, rappresenta l’altra faccia della manipolazione tecnologica del vivente e di quella che viene chiamata la “biopolitica”.
Il fatto che i “nuovi diritti” vengano definiti come diritti di quarta generazione implica un’idea di evoluzione, di autosviluppo. Infatti, il diritto moderno oltre ad essere autofondato ha la capacità di adeguarsi; il suo sviluppo è, dunque, autopoietico. In questo senso, ai diritti della prima generazione (diritti civili), seguono i diritti di seconda generazione (diritti politici), poi i diritti della terza generazione (diritti sociali) ed infine i diritti della quarta generazione, cioè i diritti aventi oggetti o contenuti immateriali (la salute, il benessere, l’ambiente) che tendono a realizzare uno sviluppo della persona in quanto tale.
La caratteristica dei “nuovi diritti” è l’assenza di ogni forma di mediazione da parte del potere politico-sociale. I diritti sociali, per esempio, sono il risultato di una conquista del movimento operaio, dei ceti più deboli. Sono stati ottenuti attraverso una lotta che, in alcuni casi, diventava compromesso (patto socialdemocratico o keynesiano). In tale contesto, i diritti erano strettamente interrelati ad un rapporto sociale dinamico che dava vita ad un sistema di relazioni industriali triangolare (sindacato, governo e imprese), che a sua volta, dava vita a forme di autonomia collettiva. Invece, i diritti di quarta generazione tendono a presentarsi come fondati direttamente sull’individualità in sé considerata e rischiano così di rovesciarsi nel loro esatto opposto: la manipolazione totale dei corpi.
La ricerca di Foucault sulla biopolitica, infatti, mostra come l’individuo non sia solo l’oggetto del potere statale moderno, ma anche, in certo senso, il suo prodotto. Cos’altro è stato il processo di livellamento dei poteri intermedi da cui nasce lo Stato moderno, se non la ricerca di un rapporto diretto fra il sovrano e i sudditi-cittadini intesi come individui? Lo stesso processo che porta alla nascita degli stati totalitari e delle istituzioni totali (in particolar modo l’istituzione sanitaria che prende in cura il corpo degli uomini, ma tende a presentarlo come una tendenziale generalizzazione dell’assunzione della materia vivente a oggetto di manipolazioni da parte di un sistema di poteri) è possibile solo a partire dallo stesso processo di individualizzazione.
Paradossalmente, esso può produrre la scomparsa di ogni forma di mediazione sociale, l’assunzione onnipotente della nuda vita a oggetto della politica, e la correlativa trasformazione di quest’ultima in “governo dei corpi”. In certe condizioni, esso può neutralizzare le differenze e consegnare gli ambiti vitali, anche i più riposti, alla totale manipolazione del Potere. Può essere questo il motivo per cui, come dice Toesca, lo Stato del capitale e lo Stato del lavoro sono sostanzialmente simili.
Il paradosso è che i diritti dei cittadini, non appena reclamati o pretesi, vengano subito trasformati in “dipendenza”, in subordinazione alla logica del mercato o della burocrazia. Non c’è tempo di avanzare una pretesa dei bambini o degli anziani, che questi vengono iscritti nell’ordinamento giuridico statale per essere manipolati e privati delle loro relazioni con ciò che prima costituiva l’ambito di relazioni solidali, affettive, non disciplinate né da norme né da regolamenti. I diritti umani rappresentano l’iscrizione della vita nel giuridico statale.
Foucault aveva affermato con una terminologia straordinariamente efficace: l’età moderna è, in realtà, l’età della biopolitica. Secondo Foucault il diritto alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il diritto a ritrovare al di là di tutte le oppressioni e alienazioni quello che si è, questo diritto così incomprensibile per il vecchio sistema giuridico, è ormai sottoposto alla replica politica e istituzionale che lo organizza e lo sistema in figure giuridiche astratte. Si perde la complessità e l’unitarietà dell’individuo vivente.
Le stesse rivendicazioni (le famose tavole dei diritti che aprono la porta al privato, alla libertà, alla ricerca della soddisfazione individuale) possono diventare, come negli Stati totalitari, il criterio fondamentale delle Decisioni sovrane su chi sta dentro e su chi sta fuori, su come si organizzano gli ambiti minuti della vita quotidiana, e persino del tempo libero. Non è un caso che gli Stati totalitari si occupino tanto anche del tempo libero, e non è un caso che noi oggi ci troviamo di fronte a una forma di totalizzazione dell’immaginario collettivo attraverso la manipolazione mediatica. L’uomo moderno, dice Foucault, è un animale nella cui politica – come governo dei corpi e delle menti – è in questione la sua consistenza di essere vivente. E dove, proprio per effetto di tutto ciò, si consuma ogni giorno la neutralizzazione delle sue passioni e della sua specifica ricchezza spirituale.
Basta prendere un solo esempio: quello della manipolazione tecnologica del dolore. La medicalizzazione della vita, come ha sostenuto Salvatore Natoli, distrugge l’interiorità e il significato della persona.
La spettacolarizzazione del risultato degli interventi medici sul corpo ha preso il posto della partecipazione collettiva degli uomini al dolore, e quindi dell’idea che si possa dare un “senso” persino alle cose più nefaste come la morte.
Il problema del dolore si è trasformato in quello dell’efficienza degli apparati che se ne occupano: vale a dire della maggiore o minore possibilità di ridurre i costi sociali della malattia. La persona sofferente viene messa dentro un “campo” in cui non è più visibile “all’esterno” il dolore.
La manipolazione tecnologica della vita ha come effetto l’esclusione di ciò che non viene trattato medicalmente. Avendo iscritto la nuda vita nell’ordinamento giuridico statuale, nel governo politico dei corpi, si è completamente rovesciata la situazione del diritto in una totale soggezione. La “nuda vita” riceve forma soltanto se è trattata, se è manipolata: non rappresenta niente in sé. All’individuo cui sono stati conferiti i diritti umani è ormai data la nuda esistenza senza “vestito”, senza cultura, senza tradizioni.
Ma in tal senso, la nuda esistenza corrisponde all’animalità, di cui ha parlato Hannah Arendt. La politica moderna, cioè, si occupa del nostro essere animali, e nega il nostro essere bisognosi di senso, di comunicazione e di reciprocità.
Abbiamo sempre pensato, secondo i vecchi brocardi latini, la società e il diritto come due poli coappartenenti: la società produce il diritto e il diritto corrisponde ad una forma di società. Senza essere marxisti ante litteram e considerare i diritti come epifenomeno di una struttura materiale, tuttavia, con un sano realismo, i giuristi romani pensavano che ogni forma di società corrispondesse a una certa organizzazione giuridica; nella fase attuale, invece, i diritti sono riferiti all’individuo singolarizzato, ridotto a nuda vita, cioè spogliata di ogni determinazione sociale (Agamben). In altri termini, la nuda vita è la vita biologica, indipendentemente dalle determinazioni sociali (appartenenza a una nazione, a una cultura, a una tradizione).
Nella biopolitica prevale il biologico puro, di fronte al quale si erge un sistema, un potere, un apparato senza nessuna di quelle mediazioni che secondo la terminologia classica potrebbero essere una organizzazione sociale oppure una nazione. La desocializzazione del diritto è simmetrica a una globalizzazione in cui scompare il problema del governo politico.
In tale contesto, il concetto corrispondente all’idea di diritti che si autosviluppano sulla base di premesse intrinseche sta producendo una innovazione notevole sul terreno del costituzionalismo moderno.
Si parla oggi di un costituzionalismo senza popolo. Al riguardo, la sentenza della Corte Costituzionale tedesca sul Trattato di Maastricht ha suscitato un interessante dibattito, la cui idea di fondo è quella che non si possa immaginare una Costituzione senza un popolo. In particolare, Grimm ha sollevato la questione dell’inesistenza del popolo europeo e gli è stato ribattuto dai teorici dei “nuovi diritti” che non c’è bisogno di un popolo perché i diritti possono reggersi da soli.
Evidentemente, tale idea implica un nuovo sistema di gestione della conflittualità rappresentato dal primato del potere giudiziario sul potere legislativo da un lato, e da un sistema tecnocratico (authorities o governance) al posto del governo politico imputabile a un centro.
I “nuovi diritti” rappresentano una forma di transizione. La società che si è autorappresentata e sviluppata dinamicamente all’interno del patto storico (tra Stato, mercato e identità nazionale) viene totalmente sostituita dalla narrazione della società cosmopolitica, caratterizzata da diritti riferibili a singoli individui in quanto tali, istituzioni di garanzia come i giudici, istituzioni di copertura come le tecnostrutture o le authorities. Le tecniche di tutela, naturalmente, sono in gran parte giurisdizionali.
L’ineffettualità della maggior parte dei diritti che vengono elencati, non ha rilevanza dal punto di vista della loro funzione simbolica. Qualsiasi lotta oggi viene attuata in nome dei diritti, perché il diritto non ha solo la funzione pratica di risolvere i conflitti ma anche una funzione simbolica: rappresentare il modo in cui si colloca ciascuno di noi all’interno di un contesto. Oggi, nelle rivendicazione, avanzate da destra o da sinistra, dal centro o dalla periferia, si reclamano solo diritti, ma non democrazia, o potere. Sembra quasi che il problema del potere sia scomparso.
Questo testo è tratto dal volume n. 6 di communitas, dedicato a “nuda vita, vita nuda. il corpo nell’epoca della biopolitica”, pubblicato nel novembre 2005.
Fonte: Tysm.org
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