di Stefano Fassina
Ringrazio Bia Sarasini per l’invito, che mi rivolge da queste pagine, alla discussione sulla complessa questione della “gestazione per altri”, della “maternità surrogata”, dell'”utero in affitto”, nel variegato lessico partigiano di ciascuna e ciascuno. La ringrazio anche per il tono delle sue riflessioni. Discutiamo di una questione generale, astratta dall’affetto per Nichi Vendola, relativa tanto all’universo etero quanto all’universo omosessuale. Anzi, i dati indicano, relativa soprattutto al primo.
Ricordiamolo per non cadere nella trappola tesa dai nostri avversari davanti alla stepchild adoption. Nel merito, confesso di non ritrovare nell’oggetto del suo commento le mie parole all’Avvenire. Mi attribuisce, forse per riflesso condizionato da antico confronto con le posizioni prevalenti nel Pci, una contrapposizione novecentesca «tra lavoro e mondo dei diritti individuali».
Nell’intervista sostengo esattamente l’opposto: «Per ogni uomo e donna i diritti sono uncontinuum. I diritti civili vanno insieme ai diritti economici, sociali e politici». Dov’è la contrapposizione o la gerarchia? È l’unicità dei diritti che mi porta a sostenere che «non si può essere favorevoli al neo-umanesimo sul terreno del lavoro, del welfare, dell’ecologia e poi accettare il paradigma dell’individualismo liberista sul terreno dei diritti civili». La contrapposizione post-sessantottina la vedo qui.
Nell’intervista sostengo, senza nascondermi per ossequio alla sede, la stepchild adoption. Poi, mi concentro su chi “compra”. Parto da me, maschio, occidentale, acculturato, benestante, di sinistra, potenziale compratore. Provo a discutere su un piano etico.
Bia Sarasini riconduce il mio discorso a un approccio proibizionista. Allora le chiedo: ogni regolazione pubblica delle relazioni tra persone o tra la persona e la natura di cui siamo parte è proibizionismo? È riduttivo per intensità etica, ma prendiamo il rapporto persona-lavoro. È proibizionismo una norma che nel mercato del lavoro vieta di impiegare il corpo di un uomo o di una donna oltre un certo orario giornaliero? Nella logica della autodeterminazione, lasciamo a ogni persona la disponibilità del proprio corpo nella relazione produttiva con l’altro o l’altra? Anche per lei, sono sicuro, la risposta è no.
Perché nelle relazioni tra due persone nel mercato del lavoro vi è un’ ampia differenza di potere. Perché i rapporti di forza sono strutturalmente asimmetrici tra chi vende e chi compra forza lavoro. Certo, vi può essere chi lavora nella logica del dono. Ma allora siamo fuori dalla realtà di mercato.
La tecnologia ha spalancato le porte al potere economico nella dimensione della riproduzione in un quadro economico e sociale segnato da enormi disuguaglianze e diffuse povertà, dove i rapporti di forza tra le persone sono drammaticamente squilibrati.
Consapevole della mia parzialità, senza verità assolute da somministrare, guardo anche io, con i miei occhi, alla realtà: alla donna, alla vita che nasce, al legame di maternità in divenire nella gestazione.
Rifletto come potenziale acquirente, a partire dalla mia condizione di forza in quel mercato così innaturale della vita. Possiamo affidarci esclusivamente al principio di autodeterminazione? Dobbiamo regolare l’attività riproduttiva come un’ordinaria attività produttiva? Il nodo è intricato. Ma la mia mia risposta, qui e ora, è no.
Noi, la sinistra, possiamo avere senso storico e politico fuori da un umanesimo integrale? Possiamo accettare che non vi siano limiti invalicabili all’individualismo proprietario nel mercato della riproduzione?
Fonte: il manifesto
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