di Emiliano Santoro
La congiuntura macroeconomica in questo inizio d’anno ci restituisce un quadro a tinte fosche, con l’economia globale in possibile frenata. I dubbi principali circa la solidità dell’espansione nell’Eurozona vengono sollevati a fronte dell’eccezionalità dei fattori che l’hanno propiziata: la compressione del prezzo del petrolio, il deprezzamento del cambio e l’allentamento monetario ad opera della BCE.
È in questo scenario che il governo Renzi ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, improntando una politica fiscale all’insegna dell’espansione in deficit. Questo tipo di atteggiamento denota una forte componente autolesionistica, perché va a compromettere i già limitati margini di manovra del bilancio pubblico. Il governo ha infatti scommesso su una ripresa che semplicemente non arriverà, neanche in presenza degli eccezionali shock positivi di cui sopra.
La bomba a orologeria delle clausole di salvaguardia, una spada di Damocle da 17 miliardi di euro, è stata sistematicamente disinnescata attraverso coperture in deficit, mentre il governo ingaggiava un pretestuoso scontro dialettico con la Commissione Europea, rea di non concederci ulteriore spazio fiscale per farci del male. Nel frattempo, i consumi privati arrancano e le spinte deflazionistiche sembrano conclamarsi, compromettendo il sentiero di rientro da uno stock di debito pubblico al suo massimo nell’era repubblicana (132,4% in rapporto al PIL). Nonostante il governo abbia spinto sull’acceleratore, la crescita su base annua si attesta ad un misero 0,8% (dove la sola variazione delle scorte è pari allo 0.5%!), mentre i dati trimestrali denotano una progressiva decelerazione nel corso del 2015.
La bomba a orologeria delle clausole di salvaguardia, una spada di Damocle da 17 miliardi di euro, è stata sistematicamente disinnescata attraverso coperture in deficit, mentre il governo ingaggiava un pretestuoso scontro dialettico con la Commissione Europea, rea di non concederci ulteriore spazio fiscale per farci del male. Nel frattempo, i consumi privati arrancano e le spinte deflazionistiche sembrano conclamarsi, compromettendo il sentiero di rientro da uno stock di debito pubblico al suo massimo nell’era repubblicana (132,4% in rapporto al PIL). Nonostante il governo abbia spinto sull’acceleratore, la crescita su base annua si attesta ad un misero 0,8% (dove la sola variazione delle scorte è pari allo 0.5%!), mentre i dati trimestrali denotano una progressiva decelerazione nel corso del 2015.
Lo stato dei nostri fondamentali macroeconomici e l’incessante aggiornamento dello scenario politico-economico globale avrebbero imposto un supplemento di responsabilità nella scelta delle riforme da intraprendere. Una vera azione di discontinuità rispetto al passato avrebbe richiesto una profonda revisione della spesa pubblica, così da intaccare le numerose sacche di inefficienza dell’apparato statale e ricavare risorse in grado di rilanciare gli investimenti e ridurre il cuneo fiscale in maniera strutturale, senza dunque ricorrere a misure limitate nel tempo e che hanno avuto come unico risultato quello di dopare gli effetti del Jobs Act.
L’azione del Governo si è caratterizzata per tutta una serie di provvedimenti fiscali la cui ratio è rinvenibile in un mero calcolo di gestione del consenso: il bonus da 80 euro in vista delle elezioni europee, la mancia da 500 euro ai neoelettori, l’abolizione della Tasi sulla prima casa per accontentare i capricci dei Berluscones. A fronte di costi certi per le casse dello Stato e di dubbia capacità di stimolo all’economia aggregata, questi provvedimenti hanno come effetto principale quello di erodere la struttura di progressività fiscale implicita nel nostro sistema di tassazione ed esplicitamnete prevista dall’Articolo 53 della Costituzione. L’inevitabile epilogo è quello di inasprire ulteriormente le diseguaglianze che si sono venute a sedimentare in decenni di spesa pubblica fuori controllo, e che si palesano oggi nella Terza società, un esercito invisibile di 9 milioni di italiani, in gran parte donne e giovani residenti al Sud, che sono di fatto esclusi dal mercato del lavoro. Al di là delle considerazioni congiunturali, intervenire strutturalmente a sostegno di queste categorie è di fondamentale importanza per un’economia come quella italiana, dove il combinato disposto di bassa crescita economica e scarsa crescita demografica porta necessariamente all’insostenibilità del debito pubblico e del sistema pensionistico.
D’altro canto, non è più possibile rinviare misure in grado di stimolare l’accrescimento del capitale umano, sia rispetto al suo margine estensivo (quantità) che a quello intensivo (qualità). L’Italia si distingue infatti per la più bassa quota della popolazione in possesso di istruzione universitaria o equivalente, posizionandosi invece al quarto posto rispetto alla popolazione istruita a livello primario (fonte: OCSE). A tal proposito, nell’ultimo Country Report sul nostro Paese la Commissione Europea ha posto una certa enfasi rispetto alla crescente fuga dei cervelli e ai conseguenti rischi per la qualità dell’offerta di lavoro, la crescita potenziale e lo stato delle finanze pubbliche. Di fatto, nell’individuare le cause del nostro declino la Commissione riconosce al capitale umano un’importanza assimilabile a quella dei più tradizionali indicatori macroeconomici. È ormai indubbio che per rilanciare la produttività dei fattori – lavoro in primis – sia necessario arrestare l’emorragia di risorse intellettive, operando scelte coraggiose sull’offerta scolastica ed universitaria, sugli incentivi alla ricerca e sviluppo e sulla formazione professionale. Diffidare di Governi che affrontano questi temi su un piano esclusivamente propagandistico, proponendo soluzioni facili a problemi così radicati nel tempo, rappresenta un primo passo verso una presa di coscienza rispetto ai nodi strategici del nostro sviluppo.
Ultimo ma assolutamente non meno importante, per intraprendere una lotta alle disuguaglianze ispirata al criterio di progressività fiscale espresso nel dettato costituzionale è necessario individuare strumenti a sostegno dei redditi al di sotto della soglia di povertà. A tal proposito, in Europa solo Italia e Grecia non prevedono il reddito minimo garantito. Introdurre questo strumento, legandolo opportunamente all’implementazione di politiche attive del lavoro – così da scongiurare il rischio che il sussidio funga da deterrente alla ricerca di un impiego – rappresenta una via d’uscita rispetto al morso della povertà dilagante. L’esperienza della Provincia Autonoma di Trento, che ha introdotto il reddito minimo a partire dal 2009, si è rivelata vincente sotto un certo numero di aspetti. Estendere questa misura su scala nazionale richiederebbe tra i 5 e i 6 miliardi di euro, a fronte di 9,5 miliardi spesi dal governo per finanziare il bonus IRPEF, che ha introdotto enormi distorsioni sul piano della platea degli aventi diritto e conseguito dubbi effetti sul piano dei consumi.
È avendo ben presenti questi temi che dobbiamo chiederci cosa ci aspetteremmo da una forza politica in grado di ergersi a difesa dei più deboli, dei precari in senso lato, di quelli che non hanno tutela perché semplicemente non sono ancora chiamati a scegliere. La nostra stessa esistenza come società, prima ancora che la sostenibilità della nostra economia, si gioca sul campo dell’uguaglianza e dell’equità intergenerazionale.
Fonte: Possibile
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