di Luigi Bobbio
L’idea della democrazia diretta sta esercitando una fortissima attrazione tra gli ormai numerosi oppositori al sistema dei partiti. Gran parte della fortuna del Movimento 5 Stelle, per esempio, risiede nella potente (anche se ingenua) contrapposizione tra i “cittadini” e i “politici” e nella convinzione che sia necessario un controllo permanente dei primi sui secondi mediante gli strumenti della democrazia diretta. Le potenzialità offerte dalla rete sembrano poter moltiplicare le occasioni di consultazione e allargare la platea dei cittadini coinvolti. L’idea di chiamare continuamente i cittadini a pronunciarsi sulle leggi esistenti o a proporne di nuove è ormai considerata, in molti ambienti, come una condizione necessaria e addirittura ovvia per la sopravvivenza della democrazia.
In questo clima che cosa c’è di meglio che andare a vedere quello che succede in Svizzera, ossia nel paese che più d’ogni altro fa ricorso sistematico alla democrazia diretta? Dove i cittadini sono chiamati a votare più volte all’anno su specifiche questioni? È quello che ci propone Leonello Zaquini nel libro La democrazia diretta vista da vicino. Il suo autore è un ingegnere torinese emigrato in Svizzera quasi vent’anni fa per motivi di lavoro, che a poco a poco si è reso conto che il sistema politico a cui era approdato era completamente diverso da quello che si era lasciato alle spalle; e ha cominciato a informarsi, a osservare, fino a appassionarsi, a diventare consigliere comunale della sua cittadina e poi a proporsi come attivista per la diffusione della democrazia diretta in Italia. Ciò che rende questo libro particolarmente affascinante è che si configura come il racconto di una graduale presa di coscienza. Quello che i cittadini svizzeri probabilmente tendono a dare come scontato, per lo straniero catapultato lì costituisce un mondo tutto da scoprire e da decifrare. Il suo punto di vista non è quello dello studioso – giurista o politologo – ma è quello del cittadino che si è trovato coinvolto – quasi suo malgrado – in pratiche partecipative e referendarie del tutto nuove per lui e di cui a poco a poco è riuscito a capire il senso e la portata. Si tratta di un approccio molto efficace perché riesce a farci vedere la democrazia diretta veramente da vicino. Benché la Svizzera sia a due passi da noi (mezz’ora da Milano), la conosciamo pochissimo. Sappiamo che si tengono continui referendum, ma abbiamo idee confuse su come funzionano, a che cosa servono, che effetti generano. Leonello Zaquini ci offre proprio questa conoscenza pratica dall’interno: non si limita a presentarci le regole, ma ci fa vedere come vengono concretamente praticate e vissute dai cittadini svizzeri con una miriade di esempi molto significativi.
E ci fa prima di tutto capire una cosa importante. “Elezioni” e “votazioni” per noi sono sinonimi. Per gli svizzeri, no. Si eleggono le persone, si vota sul merito delle questioni: l’elezione è tipica della democrazia rappresentativa, la votazione è tipica della democrazia diretta. Sono due atti completamente diversi sul piano cognitivo, che anche noi dovremmo tenere concettualmente distinti: nel primo caso si sceglie una persona (o una lista di persone) a cui affidare incarichi politici, nel secondo caso ci si esprime nel merito di un tema di interesse comune. Per gli svizzeri – così almeno ci dice Zaquini – l’elezione è considerata un atto più problematico, perché raramente conosciamo abbastanza bene le persone che siamo chiamati a scegliere (spesso non le conosciamo affatto), mentre la votazione può essere svolta in modo più consapevole perché tutti quanti noi possiamo arrivare a formarci un’opinione su un certo argomento e, se non ci arriviamo, possiamo sempre astenerci dal voto.
Qui Zaquini affronta una delle principali critiche che vengono rivolte al sistema referendario svizzero: ossia l’alto livello di astensione. Poiché gli elettori sono chiamati a votare molto frequentemente, sia a livello nazionale, che nei singoli cantoni o comuni, sulle questioni più diverse e talvolta anche su quesiti cervellotici (o comunque non di importanza evidente), la partecipazione al voto è generalmente molto bassa: è difficile che si superi il 50% degli aventi diritto. Gli svizzeri sono affezionati alla democrazia diretta, ma quando si tratta di andare a votare tendono a disertare le urne. Secondo Zaquini non si tratta di un comportamento patologico: è giusto che non vada a votare chi non ha interesse per la questione sottoposta al voto o non è riuscito a maturare una propria opinione. Anzi sarebbe scorretto il contrario, e cioè che votassero anche coloro che non si sentono in grado di esprimersi. In questo modo chi si astiene finisce per rimettersi a quella minoranza (più o meno consistente) che decide di votare. Com’è noto, nei referendum svizzeri non c’è il quorum e quindi la votazione è valida qualsiasi sia il numero dei partecipanti. Zaquini insiste moltissimo sull’importanza di questo punto e mi pare difficile dargli torto. L’esistenza del quorum trasforma automaticamente e del tutto scorrettamente le astensioni in voti contrari ed autorizza la campagna strategica per l’astensione da parte dei contrari come è avvenuto nel 2005 per la legge sulla procreazione assistita. Sarebbe più ragionevole riconoscere che gli assenti non vogliono prendere parte al gioco e lasciar decidere ai pochi o ai tanti che desiderano esprimere il loro voto. Ed è un peccato che il quorum sia stato mantenuto anche nella riforma della costituzione recentemente approvata in prima lettura dal Senato, sia pure con una piccola modificazione che mi pare poco ragionevole: se le firme raccolte sono 500.000, rimarrebbe il quorum attuale del 50% degli aventi diritto, se si arriva a 800.000 firme, basterebbe che andassero a votare la metà degli elettori delle ultime elezioni politiche. Dietro l’istituzione del quorum c’è l’idea che non si possano lasciare importanti questioni alla mercé di piccole minoranze. Ma questo ha senso soltanto se si pensa che le decisioni politiche (comprese quelle referendarie) siano decisioni ultimative da cui non si può più tornare indietro. Invece, nella democrazia, come sottolinea Zaquini (e su questo punto sono completamente d’accordo con lui) la decisione è un processo, spesso accidentato, contorto e con colpi di scena in cui ciascun pronunciamento (da parte del parlamento, del governo o dei cittadini mediante referendum) è solo un passaggio, discutibile e revocabile. Non si decide mai una volta per tutte, come si è visto benissimo per esempio con la legge sulla procreazione assistita che, una volta confermata (in modo discutibile) per referendum, è stata a poco a poco smantellata e dopo 10 anni non ne rimane praticamente più traccia. D’altronde Zaquini osserva giustamente che anche le iniziative referendarie sconfitte (e in Svizzera sono la stragrande maggioranza) finiscono, alla lunga, per produrre qualche effetto. La volontà popolare che si esprime nelle votazioni referendarie non è una scure che trancia in modo ineluttabile la questione, ma piuttosto un punto di passaggio all’interno di un processo molto più lungo.
Su questo punto temo che i nostri alfieri della democrazia diretta vadano meno per il sottile e tendano a considerare i referendum piuttosto come un atto di imperio con cui il popolo sovrano mette finalmente in riga la casta dei politici. Zaquini, riferendo del caso svizzero, mostra invece molto chiaramente che la democrazia diretta non è alternativa a quella rappresentativa, ma convive con essa e, paradossalmente, contribuisce a rafforzarla e a irrobustirla. Il principale effetto della democrazia diretta consiste infatti, secondo lui, nel rendere i politici più attenti e riflessivi nel momento in cui propongono e approvano una legge. Essi sanno che quello che decidono potrà essere sconfessato dagli elettori e che quello che rinviano potrà essere portato al voto da un referendum propositivo (o, secondo la terminologia svizzera, da un’iniziativa dei cittadini). Devono quindi guardarsi dal prendere le loro decisioni in circoli ristretti per favorire i classici “interessi forti”, perché il popolo sovrano è sempre in agguato: nella confederazione, nei cantoni, nei comuni. Questo meccanismo allontanerebbe il rischio della corruzione e affievolirebbe la pressione delle lobbies, perché ha poco senso ottenere dal parlamento un risultato che potrebbe essere facilmente ribaltato dagli elettori.
Ma se i rappresentanti si trovano sotto la costante spada di Damocle del voto referendario, non c’è il rischio che siano indotti a prendere decisioni popolari di breve respiro anziché proporsi obiettivi di più lungo termine? Zaquini sostiene di no. Egli mostra che in tutti quei referendum in cui erano in gioco vantaggi immediati (e troppo facili) per la maggioranza dei cittadini, ma con probabili ripercussioni negative nel lungo andare, gli elettori hanno sempre risposto responsabilmente di no. Per esempio nel caso della recente proposta delle sei settimane di ferie o in quello sulla riduzione del prezzo dei farmaci. Zaquini sostiene che se un cittadino sa che il suo voto peserà nella scelta collettiva sarà indotto a tenere un comportamento responsabile. Il cittadino sovrano che si esprime con il voto è una persona diversa dal cittadino che protesta o che discute al bar. Qui si sente la forza di una tradizione plurisecolare di autogoverno. Le cose funzionerebbero allo stesso modo tra persone abituate nei secoli a sentirsi ed essere trattati da sudditi?
Da questi pochi cenni si intuisce che uno dei principali pregi di questo libro risiede nel fatto che il suo autore, pur schierato anima e corpo a favore della democrazia diretta, non nasconde le obiezioni che vengono generalmente rivolte ai referendum, le discute alla luce dell’esperienza svizzera e mette anche in evidenza le debolezze del sistema elvetico: per esempio il fatto che non esista un filtro super partes sulle richieste di referendum (come avviene in Italia ad opera della Corte costituzionale), che possano venir approvate decisioni assurde (come quella contro la costruzione dei minareti) o che possa prevalere un ottuso conservatorismo, come accadde per diritto di voto alle donne (riconosciuto a livello federale solo nel 1971!) e del voto agli stranieri nelle elezioni locali.
Siccome però io sono meno convinto di lui sulla bontà assoluta della democrazia diretta, ho notato che ci sono alcune obiezioni classiche che Zaquini non prende in considerazione. Lo faccio allora io. Una prima obiezione consiste nel rischio di quello che James Fishkin chiama il “direttismo” e che nel dibattito italiano è spesso evocato come “immediatismo”, ossia l’idea che la volontà dei cittadini debba potersi esprimere in forma diretta senza le mediazioni riflessive costituite dai parlamenti, ma anche dai giornali, dagli opinion makers e dagli esperti. I sondaggi e i blog funzionano sostanzialmente in questo modo: nel primo caso (i sondaggi, ma anche i referendum) si raccolgono opinioni grezze non mediate, né riflettute e le si presentano come la volontà (inconfutabile) dei cittadini. Nel caso dei blog ciascuno può “postare” la sua opinione (spesso espressa in modo molto rude) e il processo finisce lì: non c’è bisogno di approfondimento o di confronto. Questa sorta di sovranità delle opinioni private che non tollera gli impacci delle mediazioni, i tempi del confronto e neppure le necessarie pause di riflessione rischia facilmente di creare corto-circuiti plebiscitari tra il leader carismatico e la massa indistinta di individui cui viene offerta la possibilità di esprimersi direttamente su una vastissima serie di questioni. Non è un caso che i più accesi sostenitori della democrazia diretta siano spesso “padri padroni” che cercano così di stabilire un rapporto diretto con il “loro” popolo. Hugo Chávez e Beppe Grillo – pur diversissimi tra di loro – ne costituiscono due buoni esempi.
Nel caso svizzero questo rischio appare sicuramente remoto. Come ci spiega Zaquini, il sistema politico elvetico aborre i leader carismatici e valorizza viceversa lo stile collegiale nella gestione dell’esecutivo. Il presidente della confederazione cambia ogni anno secondo l’antico modello della repubblica romana e di molti comuni medievali. Le assemblee rappresentative (a livello confederale, cantonale e comunale) sono rispettate e apprezzate. Ma che cosa può diventare la democrazia diretta in un sistema in cui si ripone una qualche fiducia solo sul leader in contrapposizione a una classe politica screditata e sbeffeggiata?
In realtà la democrazia diretta ha un grosso difetto: è un metodo decisionale di tipo aggregativo, nel senso che le opinioni si contano allo scopo di stabilire qual è l’opinione della maggioranza. Le preferenze dei cittadini sono considerate come un dato di fatto che va semplicemente rilevato. Qui l’obiezione fondamentale è che in democrazia le opinioni non possono essere considerate come un dato privato (ciascuno ha le sue), ma vanno piuttosto viste come il risultato di un confronto argomentato nelle varie possibili sedi della sfera pubblica. Nel corso della discussione i cittadini possono precisare le loro opinioni o anche modificarle se incontrano argomenti importanti a cui non avevano pensato o che avevano sottovalutato. Secondo questo punto di vista l’essenza delle democrazia non consiste nella conta dei voti (come avviene in un sondaggio o in un referendum), ma nel dibattito pubblico attraverso il quale le opinioni si definiscono, si confrontano, si precisano. Nella democrazia fondata sulla discussione (chiamata anche “democrazia deliberativa”) il problema non è quello di rilevare e contare preferenze date, ma di creare spazi adatti al confronto in cui sia possibile capire qual è il vero oggetto del contendere e in cui i cittadini possano formare le loro posizioni a ragion veduta. Da questo punto di vista gli istituiti della democrazia diretta (i referendum) appaiono strumenti troppo rozzi e primitivi. Possono far emergere opinioni che la maggior parte dei politici osteggia (è accaduto in Italia per il divorzio, l’aborto, le centrali nucleari, l’acqua pubblica e in qualche altro caso) e per questo costituiscono strumenti preziosi, ma non sollecitano esplicitamente il confronto pubblico e spesso pongono gli elettori di fronte a domande poco chiare, o poco centrate a cui essi possono rispondere solo con un sì o con un no. In mancanza di un sufficiente dibattito pubblico il risultato di un referendum può apparire come un esito casuale o come un giudizio di Dio. Per i sostenitori della democrazia deliberativa, il ricorso al voto referendario è da considerare come l’ultima spiaggia: quello che conta sono le discussioni che lo precedono e che possono permettere di inquadrare diversamente il problema o di trovare soluzioni alternative migliori. In Svizzera questo problema risulta un po’ mitigato dal fatto che ciascun elettore riceve a casa sua il “libretto delle votazioni” in cui, per ogni referendum proposto, vengono indicati gli argomenti fondamentali a favore e contro la proposta, in modo che ogni cittadino abbia modo di riflettere su quale può essere la sua posizione (ci fosse in Italia qualcosa di simile per ogni referendum, sarebbe un passo avanti incalcolabile). Si tratta però di una riflessione individuale che ciascuno fa (se la fa) per proprio conto, perché – come ci racconta Zaquini – gli svizzeri sono poco disposti a discutere in pubblico le loro scelte referendarie a tutela del principio di riservatezza. Talvolta, anche in Svizzera, i cittadini sono chiamati a votare su questioni poco chiare o poco rilevanti (segno che alle spalle c’è un confronto pubblico insufficiente).
La democrazia diretta, infine, suppone che esista un conflitto principale che è quello che oppone i governanti ai governati. Poiché i primi hanno la fortissima tendenza ad agire secondo i propri interessi o le proprie logiche d’azione, dimenticando il punto di vista dei secondi, si ritiene necessario che i governati possano – di tanto in tanto, secondo certe procedure – dire la loro in modo vincolante. La retorica che si accompagna all’invocazione della democrazia diretta è spesso fondata su questa contrapposizione: governati / governanti, cittadini / politici. La usa a piene mani il Movimento 5 Stelle che infatti si presenta come l’alfiere dei cittadini nel loro complesso contro la classe politica.
Ma questa contrapposizione dicotomica costituisce una semplificazione decisamente brutale. In realtà le principali divisioni si trovano tra i cittadini stessi: non esistono i “cittadini” come elemento compatto che ha bisogni e interessi diversi da quelli dei politici. Come non esiste un popolo omogeneo. Esistono viceversa cittadini che hanno posizioni diverse su quasi tutte le questioni che si affacciano sulla scena pubblica, dall’economia all’immigrazione, dall’ambiente al lavoro. In questo quadro democrazia non significa tanto far emergere la volontà della maggioranza dei cittadini, quando dare loro la possibilità di confrontarsi per trovare soluzioni innovative ai loro conflitti. È il dialogo, non il voto a fare la differenza. Per questi motivi sono meno convinto di Leonello Zaquini che la democrazia diretta sia la soluzione. Penso piuttosto che dovremmo puntare su un mix equilibrato di democrazia rappresentativa, democrazia deliberativa e democrazia diretta (soprattutto come ultima spiaggia). Sono comunque convinto che abbiamo molto da imparare dalla Svizzera (non solo la democrazia diretta, ma anche l’articolazione decentrata dei poteri pubblici: qui da noi stiamo andando irresponsabilmente nella direzione opposta) e quindi da questo libro che ce la presenta in modo così fresco, così puntuale e convincente.
Prefazione tratta da La democrazia diretta vista da vicino di Leonello Zaquini, Mimesis, Milano 2015.
Fonte: Scenari Mimesis
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.