di Igiaba Scego
Pochi giorni fa Donald Trump ha twittato una frase attribuita a Benito Mussolini: “Meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecora”. Il vero autore della frase si chiamava in realtà Ignazio Pisciotta. L’uomo era uno sconosciuto ufficiale della prima guerra mondiale, che avendo perduto la mano destra in battaglia scrisse con la sinistra (almeno così dice la vulgata) la sua frase eroica sui muri. E non i muri di un posto qualsiasi, ma i muraglioni di quel Piave che mormorava nella ormai celeberrima canzone.
Solo dopo entrerà in scena Mussolini. La frase evidentemente gli piacque molto. Anche perché rispecchiava perfettamente quella sua retorica nazional-popolare fascista che tanto aveva a cuore concetti come virilità ed eroismo.
Molti di noi fino a ieri (me compresa) ignoravano l’esistenza di Ignazio Pisciotta. L’abbiamo scoperto dopo il caso Trump leggendo vari giornali e lanci di agenzia.
Sta di fatto che la frase, pur non avendo natali fascisti, si lega intimamente a quel periodo storico. Il regime infatti la usò per la sua propaganda perché in fondo ne esprimeva l’essenza.
Trump, pur credendo che la frase fosse di Mussolini (anche lui ignorava il bersagliere Pisciotta), ha difeso la sua scelta dicendo ai giornalisti che la frase lo aveva colpito perché suonava bene. E ha anche aggiunto che alla fine il tutto era servito al suo scopo, ovvero quello di attirare ancora di più l’attenzione su di sé. E come se seguisse il motto: parlatene bene, parlatene male, l’importante è che se ne parli.
La vicenda Trump mi ha colpito in modo particolare perché arriva in un momento in cui in Italia si sta discutendo proprio di fascismo, con due proposte diametralmente opposte.
Il governatore della regione Toscana Enrico Rossi ha inviato al presidente della repubblica Sergio Mattarella una richiesta formale per far rimuovere il mausoleo della vergogna costruito ad Affile, in provincia di Roma, e dedicato al criminale di guerra Rodolfo Graziani. Enrico Rossi giustamente ha scritto che quel mausoleo è “un atto gravemente offensivo per la storia della nostra repubblica”. Graziani infatti si è macchiato di crimini orrendi contro lepopolazioni civili in Etiopia e in Libia.
C’è anche da ricordare che il mausoleo a lui dedicato non è d’epoca, non è stato costruito durante il ventennio fascista, ma solo pochi anni fa. Inoltre, non dimentichiamocelo, il comune di Affile ha usato per costruire questo monumento fondi regionali destinati originariamente alla risistemazione del parco di Radimonte. Una storia di sfregio della memoria, insomma, e tutta a danno dei contribuenti.
Se in Toscana Enrico Rossi sta cercando di fare i conti con il passato coloniale e le sue strane deviazioni, in un’altra regione, l’Emilia-Romagna, c’è chi ha annunciato la nascita di un museo del fascismo a Predappio. Sì, avete capito bene, proprio a pochi metri dalla casa che fu di Benito Mussolini e nella stessa città in cui, dopo mille vicissitudini, è stato seppellito il suo corpo.
La notizia naturalmente ha fatto il giro del mondo.
Sui mezzi d’informazione si è cominciato a discutere sull’opportunità o meno di costruire un museo del genere in un’epoca storica così travagliata come quella attuale, in cui i nazionalismi sono riemersi con ferocia in quasi tutta Europa. Il governo italiano comunque ha annunciato già che troverà i fondi per sostenere l’iniziativa. Dei cinque milioni di euro complessivi, il governo italiano si è reso disponibile a finanziare il progetto coprendo almeno due milioni di euro di spesa.
Tra i più soddisfatti il sindaco (del Partito democratico, come Enrico Rossi) Giorgio Frassineti, che portava avanti questa idea da parecchio tempo.
La volontà, almeno quella dichiarata da più parti sui mezzi di comunicazione nazionali, è quella di costruire un museo non ideologico che ricostruisca quei vent’anni di vita degli italiani. Non una raccolta di memorabilia, ma un percorso storico dentro il fascismo.
Queste due iniziative fanno capire che in Italia il fascismo è ancora una ferita aperta e un terreno di scontro rovente. È qualcosa di cui ancora non sappiamo parlare bene. Però sarebbe urgente cominciare a farlo con uno sguardo più lucido. Mi sono resa conto infatti, e credo di non essere la sola, che come italiani (e non importa se di sette generazioni o di seconda generazione come me) abbiamo una responsabilità storica davanti all’intero pianeta. Il caso Trump lo dimostra. Il fascismo è qualcosa che dobbiamo maneggiare con cura. Perché ogni nostro atto avrà conseguenze anche sugli altri.
Su Affile il discorso naturalmente è più semplice. Storici, militanti, scrittori, giornalisti, politici sono concordi sul fatto che quel monumento va tolto. E come se la Germania dedicasse un monumento alla gloria ealla memoria di Himmler o delle Ss. Uno schiaffo alla nostra costituzione, una vergogna che speriamo lo stato possa risolvere al più presto.
Invece sul museo la riflessione da fare credo sia più profonda.
Il dilemma non è cosa ricordare, ma come questo museo verrà realizzato. Mi chiedo quale team di studiosi sarà coinvolto e con quali criteri. Come creare un prodotto non manipolabile che davvero spieghi e non glorifichi una delle pagine più buie della storia italiana?
Ecco perché forse il luogo scelto per questo museo, Predappio, non è adatto.
Quando penso a questa cittadina romagnola ormai, quasi come un tic nervoso, non penso quasi più a Benito Mussolini, ma allo spettacolo teatrale dal titolo Dux in scatola che il drammaturgo Daniele Timpano porta in scena dal 2005.
Timpano nella pièce impersona Benito Mussolini, anzi se vogliamo essere proprio esatti le spoglie mortali del “Mussolini Benito” contenute in uno scatolone al centro della scena, una bara fai da te del capo del fascismo. La pièce narra le vicende rocambolesche di Mussolini post mortem. Un corpo che all’inizio nessuno vuole e che dopo tutti vogliono per farsi pubblicità. Un corpo che viene seppellito e disseppellito così tante volte che insomma si stanca un po’. Un corpo che diventa sfogo collettivo, reliquiario nostalgico, scheggia impazzita di una storia scomoda.
Ed ecco che Timpano, uomo dal fisico gramsciano (ha pure gli occhialetti), dà corpo a questa storia che porta per mano lo spettatore dagli anni di massimo consenso del regime fino alla nostalgia da supermarket che vige a Predappio. A un certo punto Timpano descrive Predappio e la descrizione non si distingue da quella di un qualsiasi centro commerciale fuori dal raccordo anulare di Roma:
“A Predappio trovate i resti morti del mio corpo vivo di allora ma trovate, naturalmente, anche tanti gadget: spille, anelli e portachiavi col fascio littorio, trovate bronzi, busti, tazze, santini e quadretti magnetici con la mia faccia, quadretti magnetici… quelli che si attaccano al frigo. Trovate il manganello ‘Me ne frego’: 35 centimetri, legno nero con impugnatura marrone chiaro, scritta primo lato, appunto, ‘Me ne frego’, scritta secondo lato ‘dux Mussolini’, euro 12, 50+Iva. Trovate anche il vino del duce ‘Barcollo ma non mollo’, la birra del duce e il liquore del duce disponibile nella sua confezione mignon da sei pezzi."
Timpano descrivere la realtà così come l’ha vista durante una sua visita. Non aggiunge e non esagera.
È chiaro – e dopo aver citato Dux in scatola mi sembra ancora più chiaro - che il luogo, proprio per la sua storia recente, legata soprattutto al turismo nostalgico, non può essere la sede adatta ad un museo che teoricamente s’indirizza a tutti gli italiani, al mondo e alla storia con la S maiuscola.
nover. Non è stato fatto a Predappio il lavoro sulla memoria che i tedeschi hanno fatto nelle loro città. Dopo il crollo del muro, la Germania ha cominciato a guardare il suo corpo martoriato dalla storia e ha cominciato a raccontarlo in ogni angolo del paese. Non c’era solo la memoria della Germania Est a interrogare i tedeschi dopo l’unificazione, ma anche (soprattutto) quel passato nazista che aveva portato la Germania a quella divisione dolorosa e a quella vergogna storica.
Per questo posso dire che se c’è una capitale della memoria al mondo questa è proprio Berlino e che, se vogliamo costruire un museo legato alla storia dei totalitarismi e del fascismo in particolare, è lì che dobbiamo guardare.
La città parla. Berlino non è muta. Troviamo i nomi dei campi di concentramento quasi in ogni angolo della città. E lo stesso vale per le targhe e gli omaggi alle vittime di quella barbarie novecentesca chiamata nazismo. Ogni sinagoga distrutta, ogni oltraggio subìto è marcato da un segno, da una pietra di inciampo, dal nome di una via. Io mi emoziono particolarmente davanti a quel mare di steli vicino alla porta di Brandeburgo che Peter Eisenman ha voluto essenziali, senza addobbi, per ricordare la Shoà. La città parla. E spiega quello che è avvenuto. Non si nasconde la vergogna, il cinismo, la crudeltà verso le vittime. Non si nasconde la sua follia. Ma quella di Berlino non è solo espiazione, ma anche costruzione di un futuro senza più ombre. Berlino ci prova. A volte viene accusata di parlare troppo, di esagerare con il senso di colpa. Ma la città sembra non curarsi di noi, sa che quel cancro è sempre in agguato, può riemergere, in Germania come altrove.
C’è chi se lo vuole dimenticare. C’è chi incendia i centri dove vengono accolti oggi i rifugiati siriani. Chi manifesta contro la presenza dei musulmani. Ma la città parla. Ammonisce. Ricorda. Eanche se i problemi ci saranno sempre e forse nel futuro saranno ancora più acuti, il lavoro sulla memoria che è stato fatto comunque ha dato i suoi frutti. Un luogo per me emblematico rimane l’ex Prinz-Albrecht-Straße 8. Questo era forse l’indirizzo più famigerato d’Europa. Qui c’era la Gestapo. Questo era il nome dell’orrore. Oggi la zona è conosciuta sotto il nome di Niederkirchnerstraße 8 e si trova nel quartiere di Kreuzber. In quel luogo dove sono stati riportati alla luce le celle sotterranee della Gestapo, c’è una mostra a cielo aperto. Lì dove venivano torturati e uccisi tanti innocenti si tenta di capire la storia e quel consenso alla politica hitleriana.
Ma in Italia questo sarebbe possibile ora? Qui è tutto oblio, tutto confuso. Ci sono delle perle in giro per la nostra penisola – come il museo della Liberazione a via Tasso, a Roma – ma insieme alle perle c’è ancora tanto buio.
Mi chiedo se questi due milioni governativi saranno davvero ben spesi. Mi chiedo se ci serve veramente un museo per capire il fascismo.
Nelle nostre città ci sono simboli e costruzioni dimenticati di quel lontano ventennio. Dai fasci littori sui tombini alla toponomastica imperiale-colonialista. Ma tutto questo ormai non viene codificato. Ci sono le costruzioni, le statue, le lapidi. Ma anche queste dimenticate. A Roma, per esempio, c’è il Foro italico con l’obelisco dedicato a Benito Mussolini dux, che migliaia di tifosi della Roma o della Lazio vedono ogni domenica quando vanno allo stadio a tifare la loro squadra del cuore. Quell’obelisco è inquietante, come lo sono i mosaici intorno. E non perché sia dedicato a Mussolini. Ma perché nel tempo è diventato un tabù.
Qualcuno di tanto in tanto lancia la proposta di abbatterlo. Ma è una proposta senza senso e anacronistica. È un monumento d’epoca, non come il mausoleo di Affile. L’obelisco sta lì e forse, invece di ignorarlo, potremmo semplicemente spiegarlo. Come andrebbero spiegati i mosaici che pur portando in sé dei contenuti discutibili, hanno una loro bellezza austera. In uno dei blocchi c’è scritto “IX Maggio XIV E.F Finalmente l’Italia ha il suo impero”. Quanti tifosi della Roma o della Lazio che percorrono quei viali la domenica sanno di che impero si sta parlando? Chi sa che l’Italia ha mosso una guerra devastante e violenta contro l’Etiopia?
Al Foro talico non ci sono percorsi, non ci sono quasi cartelli e nemmeno installazioni moderne per capire l’orrore che è stato. Non c’è nulla di nulla. Solo l’oblio e lo spettro di un tabù. E questo vale per ogni angolo di questo paese. Preferiamo rimuovere, invece che capire cosa sono stati quei vent’anni di connivenza con il fascismo. Qualcuno ha collaborato, qualcuno ha resistito, altri semplicemente hanno cercato di sopravvivere. Vale per l’Italia, ma anche per i paesi come il mio di origine (la Somalia) che l’Italia ha colonizzato.
Il fascismo era fatto di nefandezze, ma anche di una vita quotidiana sotto dittatura che ha coinvolto tutta la nazione. Ed ecco che dal cilindro della storia escono fuori la benzina made in Italy Roburt, le lamette da barba Mirabilia, il caffé alla cicoria e il tremendo lucido da scarpe Astra che prometteva con la sua trementina di far brillare le calzature come il sole delle colonie africane. E poi c’è quel balcone, quello a piazza Venezia. Quando sono sul bus 81 c’è sempre qualcuno che la indica sussurrando “lui era lì”. Ho sempre avuto la sensazione che un fantasma, quello del nostro passato, aleggiasse su quella piazza e non ci facesse respirare. Ma perché è ancora difficile aprire quella finestra sul balcone? Teoricamente si potrebbe, ma nessuno lo fa. Perché quegli anni sono ancora uno scoglio troppo duro da superare.
Per farlo dovremmo cominciare a studiarlo sul serio questo fascismo, in tutti i suoi aspetti. Capire quello che Hannah Arendt chiamava la banalità del male. Prima di fare un museo del ventennio o del fascismo dovremmo rendere meno muta la storia dentro le città, decostruire i tabù, decolonizzare le menti. E forse la prima cosa da fare sarebbe quella di dare la voce alle tante vittime che il regime nei suoi vent’anni ha fatto, costruire un museo delle intolleranze per le vittime che quel fascismo ha causato.
In rete un museo di questo genere è stato creato anni fa. Un team di studiosi (Marco Buttino, Marcello Flores, Annabella Gioia, ClaudioMarta, Claudio Pavone, Clotilde Pontecorvo, Alessandro Triulzi, Luca Zevi) aveva infatti progettato un museo virtuale che è ancora visibile in rete. Nella presentazione il comitato scientifico si è chiesto se “è possibile dare significato al passato, attualizzare la storia e trasformarla in una esperienza ancora aperta”.
Una domanda essenziale dalla quale “ha preso avvio il progetto di realizzare unMuseo delle intolleranze e degli stermini, con lo scopo di conservare la memoria delle intolleranze e dei genocidi del passato. Crimini che non rappresentano residui lontani, ma pericoli costanti: persistono infatti nel presente fattori di violenza, conflitti etnici, terrorismi, violazioni e negazioni dei diritti umani che provocano insicurezza e impongono una lettura critica del novecento”.
Il museo si divide in percorsi che vanno dagli spostamenti forzati al genocidio degli armeni, dal colonialismo italiano allo sterminio di rom, ebrei, omosessuali nei campi.
Il comitato scientifico aggiunge non a caso nell’introduzione che “si tratta di un’ipotesi di lavoro che riconduce al senso generale di tutta l’iniziativa: attivare la conoscenza storica di un passato che va conservato e trasmesso per poter interagire con il presente”. Questa ipotesi di lavoro ce l’hanno regalata. Perchè non farla nostra? Invece di creare un museo delfascismo a Predappio, perché non cominciamo a finanziare le piccole e grandi realtà che già stanno facendo questo lavoro in tutta Italia? Penso alle pietre di inciampo, agli archivi, alle iniziative popolari, al racconto della città.
L’unico vero museo per capire quei vent’anni di fascismo può essere solo un museo diffuso. Fatto di tante piccole e grandi esperienze.
Solo così l’Italia non sarà più muta.
Immagine di Simone Donati, TerraProject/Contrasto
Fonte: Internazionale
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