di Alex Marsiglia
"Nei giorni scorsi la stampa libica ha rivelato che una delegazione militare e d’intelligence italiana “di alto livello” ha incontrato il generale Haftar nella base di di al-Marj, città della Cirenaica nota con il nome di Barce ai tempi della colonizzazione italiana. Non si può escludere che l’obiettivo della visita fosse anche quello di definire il rischieramento in quell’area di mezzi, velivoli e truppe italiane.
Circa la tipologia di intervento la Pinotti ha parlato di aiuti che i libici hanno già indicato di preferire: protezione del governo quando si insedierà a Tripoli, formazione e addestramento". Così Il Sole 24 Ore (leggi qui) riportava la notizia del possibile intervento italiano in Libia. Non sono ancora chiari i dettagli di come si articolerà in concreto questo intervento, ma è già sufficientemente chiaro l'obiettivo.
Dopo la destituzione manu militari di Gheddafi, ora occorre riplasmare le istituzioni statuali libiche in modo da sottometterle ai governi occidentali e far sì che questi ultimi possano disporre del territorio libico per estrapolare il maggior quantitativo di profitto possibile. C'è poco da aggiungere a quello che si configura ormai come un intervento da manuale del buon colonizzatore, se non che abbiamo davanti l'effettiva configurazione di un quadro neocoloniale all'interno dell'attuale fase imperialistica. Da questo punto di vista i 25 anni di neoguerre non sembrano essere altro che una strategia volta a preparare il terreno alla riconfigurazione del potere egemonico nell'area mediorientale ed euroasiatica.
Se è vero, come ricordava G. Arrighi, che "il segreto del successo capitalistico consiste nel far combattere ad altri le proprie guerre, se possibile senza costi e, altrimenti, al minor costo possibile" ("Il lungo XX secolo", 1996), allora bisogna ammettere ancora una volta che gli Stati Uniti si sono dimostrati maestri di strategia. Infatti, dopo aver spinto prima avanti la Francia per destituire Gheddafi ora spingono avanti l'Italia nella fase di ricostruzione. Il buon Ashton Carter, Segretario della Difesa degli Stati Uniti, dopo aver dato ordine di bombardare il territorio libico partendo dalle basi italiane senza che il popolo italiano ne sapesse nulla, ha appoggiato una mano sulla spalla dei governanti italiani garantendo il sostegno a distanza e tronfio ha esclamato: "Ai libici non piace l’idea di un intervento esterno straniero, così come non piace che qualcuno entri nel Paese per prendersi il loro petrolio". Ma questo sporco lavoro qualcuno lo dovrà pur fare, no? Così, il Segretario statunitense, ha proseguito assicurando: "siamo certi che quando il governo sarà nato, e speriamo accada presto, chiederà un aiuto internazionale".
Finalmente più nessuna aggressione brutale con tanto di morte in prigione, impiccagione o linciaggio del despota di turno. Un bel lavoro pulito di cambiamento democratico. Il lettore potrebbe chiedersi cosa cambierà mai, siccome i libici continueranno a non gradire il saccheggio delle loro risorse, ma il lettore deve rammentare che si tratta di un governo democratico e non dispotico, quindi ciò che dirà il governo deciso in Marocco è il volere dei libici, più chiaro di così! Ma se la sovranità dei libici non sta tanto bene, neanche quella degli italiani si sente in piena forma. Infatti dal Wall Street Journal nei giorni scorsi abbiamo dovuto apprendere sia del decollo da Sigonella per missioni di guerra (difensiva, of course, assicura Gentiloni) dei droni militari Usa, sia che gli alleati, inclusi Francia e Gran Bretagna, hanno creato un Centro di coordinamento della Coalizione a Roma e "da mesi" preparano un piano per un secondo intervento in Libia dopo quello del 2011. Di tutto questo non solo non è trapelato nulla, ma neppure il parlamento ne è stato informato. Il Ministro Gentiloni dovrebbe relazionare mercoledì, cioè oltre una settimana dopo l'uscita sui giornali americani della notizia. Ma se ormai le missioni di guerra si possono fare, non solo senza autorizzazioni internazionali, ma pure senza informare il parlamento e tanto meno l'opinione pubblica, allora perché stupirci quando anche l'esercito diventa una forza di sicurezza privata, come nel caso della diga di Mosul, dove le forze di sicurezza nazionali verranno impiegate a difesa degli operai della ditta Trevi?
La ricostruzione della vicenda dell'ingresso dell'Italia nella solita vecchia impresa libica potrebbe far cascare le braccia a quelle poche anime buone che cercano strenuamente di difendere la Costituzione dagli attacchi reazionari, poiché sin dai droni partiti da Sigonella fino al Consiglio di Coordinamento militare se c'è stato un elemento di chiarezza è che la sovranità della semi-periferia italica è risultata semplicemente nulla. Lascio al lettore il giudizio su quanto limitata possa essere la democrazia in un Paese sottoposto a tale restrizione del proprio campo di autonomia, tuttavia ritengo non ci si debba scoraggiare. Dunque lottare a testa bassa sul piano costituzionale resta una prerogativa irrinunciabile, ma servirebbe la consapevolezza che questi spazi non verranno lasciati all'infinito e, come abbiamo imparato negli anni scorsi, in politica estera sono già, di fatto, alienati.
La necessità di opporsi comunque, anche in un contesto dove gli spazi democratici vengono tolti, implica tornare alla lotta sociale; d'altra parte il criterio adottato da chi ci governa è quello della guerra esterna-guerra interna, quindi sarebbe tanto più necessario legare la tematica della politica estera interventista e militarista a quella del massacro sociale adottato sul piano interno. "L'accumulazione del capitale" di Rosa Luxemburg identificava come elemento centrale di ogni sistema di governo capitalista la necessità di una forte e solida macchina militarista, la quale non solo avrebbe tenuto a bada i rivoltosi con le cattive maniere, ma avrebbe pure costantemente drenato risorse ai salari per autosostenersi. Il saggio di Rosa Luxemburg resta di un'attualità sconcertante se pensiamo al Fiscal Compact, all'allungamento dell'età pensionabile, alla negazione di un reddito minimo, al progressivo smantellamento del sistema sanitario nazionale e dell'istruzione. Inoltre, mentre ci viene detto che il lavoro non è più un diritto perché è diventato flessibile e va procacciato come il pane ogni mattina, troviamo che in 25 anni l'unica costante nelle postdemocrazie è stata la guerra, la crescita degli apparati militari e della spesa pubblica per sostenerli. Certo, anche questo è keynesismo e sappiamo tutti molto bene quanto la costruzione di armamenti e macchine da guerra sia indispensabile per il Pil. L'unico inconveniente è che queste merci uscite dalla produzione vengono consumate sulla pelle degli yemeniti, ad esempio, per citare un celebre caso nazionale. Non mi pare un inconveniente da poco. La Costituzione in questo senso subisce un doppio scempio e non può fare a meno di subirlo da entrambi i lati, quello del militarismo interventista e quello del massacro sociale interno. Quindi, opporsi alla guerra con la mobilitazione del 12 marzo e con lo sciopero generale del 18 marzo diventa una prospettiva necessaria e indiscutibile se si pretende ancora di riferirsi a dei valori democratici (definiti molto chiaramente in ambito costituzionale, ma disattesi dalla classe dirigente) quando si parla di lavoro, sviluppo e futuro.
Fonte: Il Becco
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