di Roberto Romano
L’Epo (European patent office) ha presentato il rapporto sui brevetti depositati presso il suo istituto (3 marzo 2016). Sebbene i brevetti non siano un indicatore della propensione all’innovazione di un Paese, indiscutibilmente fotografano l’atteggiamento degli imprenditori del vecchio continente rispetto alla tutela delle proprie ricerche. I brevetti, infatti, garantiscono alle imprese un riparo dai possibili imitatori, e permettono di maturare-consolidare un vantaggio nella applicazione dello stesso. Quando un’impresa deposita un brevetto, vuol dire che si immagina un ritorno economico in termini di nuovo fatturato, mercato e profitti. Ovviamente l’effetto non è immediato, ma nel tempo migliora il posizionamento internazionale.
Nonostante la crescita del 6,1% dei brevetti depositati tra il 2014 e il 2015, la ripartizione dei brevetti tra i Paesi vede l’Italia posizionata parecchio male. Sul totale dei brevetti depositati il nostro Paese conta per un modesto 2%. Ma quanto male? Abbastanza. La Cina vale l’11%; la Corea il 6%; la Germania l’11%, il Giappone il 18%; gli Stati Uniti il 24%.
Leggere sui giornali che l’Italia investe nel futuro è disarmante. Si potrebbe anche sostenere che la crescita di Cina e Corea dipende dal ritardo accumulato da questi Paesi. Qualcosa di vero c’è, ma la crescita dei brevetti di questi Paesi e il consolidamento della posizione di quelli storici – Germania, Giappone, Stati Uniti, Svizzera – è direttamente proporzionale alla spesa in ricerca e sviluppo realizzata in rapporto al Pil.
Se l’Italia continua a spendere una frazione di quello che spendono gli altri Paesi in ricerca e sviluppo, gli ultimi dati parlano di un modesto 1,3%, mentre il Pil è crollato del 10% durante il periodo della lunga recessione (2007-2014), la ripartizione internazionale dei brevetti è proporzionale agli sforzi fatti dai Paesi e dalle imprese. Se poi guardiamo ai singoli campi “economici” dei brevetti – comunicazione digitale, computer, macchinari elettrici e apparati, misurazione, chimica organica, motori e turbine, biotecnologia, farmaceutica – possiamo quasi toccare con mano il nostro ritardo (arretramento).
Solo nella farmaceutica e nei motori e turbine raggiungiamo il 3% dei brevetti totali. Nella farmaceutica ci collochiamo dietro a Germania (9%), Francia (7%), Svizzera (7%), Giappone (5%) e gli inarrivabili Usa (38%); nei motori e turbine siamo dietro a Germania (23%), Stati Uniti (33%) Giappone (14%) e Francia (5%). Nei settori emergenti come la biotecnologia l’Italia rappresenta un misero 1%, e questa è una tecnologia che cambierà non poco il profilo industriale dei Paesi. Per tutti gli altri campi “economici” l’Italia rappresenta un modesto 2%, e spesso si trova dietro ai paesi emergenti.
Dai brevetti è possibile ricostruire anche “l’investimento” nei macchinari elettrici e apparati. Abbiamo sempre discusso della forza (?) della meccanica strumentale italiana, ma questa ha perso ogni prospettiva. Non solo perché è crollata la produzione di beni strumentali del 22% durante la crisi, ma perché gli altri Paesi cercano di consolidare l’aspetto tecnologico. La ripartizione dei brevetti in questo campo è abbastanza disarmante. L’Italia intercetta il 2% del totale dei brevetti Epo, contro il 18% della Germania e degli Stati Uniti, il 21% del Giappone.
L’associazione Ict e innovazione non ha molto fondamento, sono altri i settori che registreranno i migliori tassi di crescita, ma nemmeno in questa brilliamo molto: l’Italia ha una ripartizione tra lo 0% e l’1%.
L’Epo è solo un ufficio che raccoglie le domande di brevetto, ma la comparazione tra stati aiuta a capire dove ci troviamo nel consesso internazionale. Una sola nota a margine. I giornali hanno classificato la Lombardia tra le regioni più performanti. La crescita tra il 2014 e il 2015 sarebbe stata del 32%. Tutto vero, solo se guardiamo alle altre regioni italiane.
Fonte: il manifesto
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