di Maria Grazia Turri
Non c’è nulla di fisso in natura che riguardi il sesso.
Eraclito si pronunciava così fra il VI e il V secolo a.C.: «In principio tre erano i sessi del genere umano, e non due come ora, maschile e femminile, ma ve ne era anche un terzo comune a entrambi di cui è rimasto il nome mentre esso è scomparso».
Il filosofo greco non immaginava che oggi avremmo saputo che i sessi o le forme della sessualità sono ben più di tre. Infatti, gli innumerevoli risultati che provengono dalle scienze biologiche e dalle neuroscienze stanno ampiamente frantumando la dualità uomo-donna e maschio-femmina, e con queste quella di natura-cultura e sesso-genere. Ricerche che mostrano come il costituirsi di ciò che sessualmente siamo non sia per nulla deterministico, bensì articolato e complesso, e mai dato una volta per tutte.
Se le differenze sessuali e di genere siano di ordine biologico o di natura educativa, culturale o sociale, è una questione solo in parte aperta, poiché sappiamo che hanno un ruolo i vincoli dati dal “bozzetto” che siamo all’atto del concepimento, le plasticità cerebrali e l’epigenetica. Queste ultime descrivono quanto la struttura dell’individuo sia permeabile, in primo luogo dalle influenze ormonali interne e da quelle causate dall’ambiente, a partire dalla vita intrauterina, per proseguire con quella neonatale, puberale, adolescenziale e infine adulta.
Le ricerche che si riferiscono alla dicotomia uomo-donna partono dal diverso accoppiamento cromosomico, eteromorfico (XY) per i maschi e omologo (XX) per le femmine, ma hanno messo in luce un quadro molto complesso e articolato, che va da casi di criptorchidismo o di genitali ambigui, dalla sindrome dell’insensibilità all’androgeno. Ci sono poi individui con cromosoma “XX”, in cui il gene è “SRY” e che nei processi di ricombinazione del materiale genetico viene a trovarsi sul cromosoma “X” invece che su quello “Y”. A questi si aggiungono ulteriori varianti, che vengono classificate come “sindromi”, perché per esempio un individuo presenta un cromosoma “Y” e due cromosomi “X”, oppure succede che due cellule uovo aploidi vengono fecondate contemporaneamente da uno spermatozoo recante l’“Y” e da uno recante l’“X”, per poi fondersi assieme nelle prime fasi embrionali, generando un individuo dotato di due linee cellulari doppie, alcune con corredo “XX”, altre “XY”.
La questione si complica ulteriormente se pensiamo che un recente studio pubblicato da Science (Y. Yamauchi et al. Two genes substitute for the mouse Y chromosome for spermatogenesis and re production, Vol. 351, January 29, 2016, p. 514-516) ha dimostrato che il cromosoma “Y” è di gran lunga meno rilevante di quello “X” nella determinazione della forma sessuale esterna e questo perché “Y” progressivamente perde geni e funzioni e quindi potrebbe nel processo evolutivo estinguersi, senza che per questo venga meno la forma esteriore del maschio.
La gamma delle condizioni possibili non può che far venire “mal di testa”, tante sono le possibilità rispetto agli stereotipi. È utile elencarne alcune per dare conto delle innumerevoli distinzioni che si basano su criteri biologico-genetici e che mostrano che le differenze esistono e che mettono in discussione, alla radice, la dicotomia donna-uomo. Inoltre, la faccenda diventa ancora più complessa se prendiamo in esame la relazione fra patrimonio genetico, ormoni, sistema nervoso centrale e generazione di specifici neuroni. È infatti stato dimostrato come gli ormoni sessuali, in particolare il testosterone, che circolano nel sangue e che modellano i caratteri sessuali, agiscano anche sul sistema nervoso centrale, generando delle differenze chiare sia sul piano morfologico sia su quello comportamentale.
Dato che i caratteri sessuali sono modellati soprattutto dagli ormoni steroidei, diventa centrale il fatto che il sistema endocrino secerne il testosterone in modo pressoché continuo, ma che questo nella vita intrauterina ha un primo picco al concepimento, mentre altri due si verificano, l’uno a poche settimane dalla nascita e l’altro nel periodo puberale. Questi picchi, a seconda dell’intensità, co-determinano il sesso/genere nelle sue diverse sfumature di grigio e agiscono sul sistema nervoso centrale condizionando la tipologia di alcune fasce neurali e i collegamenti fra queste.
Seppur sommarie, queste complesse interazioni possono rendere comprensibile perché nello stesso individuo possono essere presenti sfumature intermedie, non “lette” come dicotomicamente attribuibili a una donna o a un uomo, o dare conto della presenza nelle “donne” di atteggiamenti mascolini e in “uomini” di quelli femminili o del transgenderismo, dei travestiti o dei crossdressers, dei drag queens, dei drag kings, dei gay con atteggiamenti femminei, delle lesbiche con atteggiamenti mascolini; cioè di tutti coloro che vivono un’identità di genere non congruente con un sesso apparente.
Come si vede non c’è nulla di naturale per quanto riguarda il sesso, men che meno la famiglia naturale. Il naturale è ben aldilà di quello che molti pensano fermandosi alla metodologia tassonomica di Linneo. Il naturale è ambiguo e costantemente mutevole, mai fissato una volta per tutte; come i biologi ben sanno.
Tutto ciò semmai dimostra che sesso e genere sono “cilici” entro i quali mortificare le individualità e non solo per gli ermafroditi, i transessuali e i transgender. Siamo tutti persone che sfuggono, per qualche verso, al precetto di essere maschio o femmina, e di esserlonaturalmente fin dalla nascita.
Se quella descritta è la variegata “gabbia” genetico-biologica, culturalmente dovremmo essere maturati facendo tesoro dell’Alcibiade di Platone, quando descrive l’amore di Socrate, e di altri testi greci e latini. La mia personale ottica è stata invece segnata dalla lettura, a 13 anni, di Agostino di Alberto Moravia. Così sono cresciuta stupendomi dell’ignoranza e dell’insensibilità su questi temi da parte della classe politica del mio Paese e anche di molti miei concittadini.
Ben venga quindi che le unioni civili abbiano accolto almeno altre manifestazioni della sessualità oltre a quelle nettamente femminile e maschile. Ma siamo sicuri che non potremmo tentare di prendere in considerazione oltre a femmina e maschio, lesbica e gay, anche i bisessuali o i transgender e i QQIA, cioè gli queer questioning (non sa da che parte sta), gli intersex (in parte maschio in parte femmina) e gli asexual (asessuato)? La mia risposta sta nella retoricità della domanda.
Non contenti di questa discriminazione in atto ci stiamo esercitando sulla genitorialità, sui suoi modi e sulle forme per istanziarla.
Il dibattito intorno a questa questione è stato così “antiquato” che non è emerso che la nuova frontiera per poter dare vita a un essere umano da parte di coloro che ne sono inabilitati o da parte di chi non desidera fare l’esperienza della gravidanza – le donne potrebbero essere attratte da questa nuova tecnica per non subire variazioni fisiche del proprio corpo – sarà l’utero artificiale. Un utero realizzato con una tecnica denominata EUFI, incubazione fetale extrauterina, che separerà così definitivamente la sessualità dalla procreazione. Uno dei traguardi che il femminismo degli anni ’70 dello scorso millennio auspicava, anche se, come dimostrano le posizioni in questi giorni, non in questo modo, non con l’aiuto della tecnica, ma unicamente facendo appello alla consapevolezza comportamentale.
Come pensiamo di poter “imbrigliare” lo sviluppo tecnologico? Come pensiamo di eludere le domande bioetiche e le questioni del postumanesimo? La lunga, e insieme breve, storia dell’homo sapiens sapiens ci dice che lo sviluppo della tecnica non ha mai subito né arretramenti, né è stato possibile fronteggiarla con vincoli legislativi. La tecnica si è sempre imposta nei fatti, perché offre opportunità prima irrealizzabili.
Ed è qui che si pone la questione della genitorialità surrogata.
Come è noto In Italia la possibilità che un embrione venga impiantato in una donna che si impegna a consegnare il nuovo essere umano a un committente, che può anche non essere una coppia, subito dopo il parto è vietata dall’art. 12 della legge n. 40 del 2004, che afferma che il ricorso a pratiche di surrogazione di maternità è un reato punito con una pena detentiva fino a due anni e con la multa fino a un milione di euro. La proposta è quella di estendere la legge italiana a livello planetario, perché secondo i detrattori della maternità surrogata, ciò che è consentito in molti paesi sarebbe eticamente e moralmente inaccettabile.
Una pratica stigmatizzata anche dalla gran parte del mondo femminista, per l’uso che del corpo della donna ne emergerebbe. Eppure è proprio la condizione delle donne che ha fatto parlare di “diritto femminile”, con l’obiettivo di segnare la relazione intrinseca fra condizione biologica e il ricorso a specifici presidi giuridici, come la tutela della maternità e dei suoi tempi nell’ambito del lavoro, le discriminazioni salariali oppure la costruzione di un diritto penale specifico per le violenze sessuali e fisiche e per lo stalking. Riconoscere la specificità di donna e uomo non solo ha generato una sensibilità per differenti situazioni e modalità relazionali – di potere – ma è anche diventata una modalità di rivendicazione culturale-sociale, e non solo in materia di diritti.
È questa la strada intrapresa che sembrava potesse condurre all’universalismo dei diritti, compresi quindi i generi “altri” e i singoli. Avrebbero dovuto essere proprio le donne, e le femministe in particolare, per la storia che ha caratterizzato la loro discriminazione da secoli, a battersi per una normazione che non escluda la maternità surrogata ma ne limiti in modo puntuale le possibili aberrazioni. Il modello avrebbe dovuto essere quello di Antigone, che ha interpretato positivamente, nella sua battaglia contro Creonte, la realtà di fatto, contrapponendo la libertà alla legge dello Stato.
In prima fila mi ero immaginata le donne che hanno per decenni, giustamente, lamentato l’esistenza di posizioni spesso ricche di luoghi comuni e fondate su stereotipi come le donne sono più votate ai lavori di cura; i maschi non sono interessati dalla paternità; due donne non possono educare figli propri perché i bambini hanno bisogno per crescere “sani” della figura paterna. Invece è emerso il fatto che due maschi non possono educare figli propri perché manca la figura materna e poi si sommerebbero due figure “non interessate alla paternità”. Non si è di conseguenza minimamente aperta la questione del riconoscimento dei diritti all’assistenza reciproca o all’accudimento o all’adozione di bambini fra transgender.
Il permanere di stereotipi che non consentono né l’affermarsi della dignità sociale per tutti, né la piena realizzazione del soggetto sul piano esistenziale, anche perché la qualità delle relazioni si gioca sempre intorno e sul rispetto reciproco. Aspetto di cui dovrebbe farsi, in primo luogo, carico chi è in condizioni di potere. E intorno alla maternità il potere è donna, tanto che il dibattito come si è espresso nel nostro Paese, è un dibattito che discrimina i maschi e tutte le sessualità a cui il processo “naturale” inibisce la possibilità di partorire autonomamente.
Ed è sulla base di nuovi stereotipi che la posizione di molte femministe guarda alla surrogacy e non al profondo sentimento di solidarietà che lega i caregiver ai bambini; tanto che non viene minimamente preso in esame il fatto che anche un singolo “maschio” dovrebbe poter avere un figlio con la surrogacy.
Questa gestazione crea indubbiamente un nuovo orizzonte di rapporti, avulso da ogni determinismo biologico oltre che da una visione dicotomica, diadica, delle relazioni e della genitorialità. Una genitorialità che non si fonda sulla “proprietà”, bensì sul desiderio di realizzazione. Una negazione della proprietà che dovrebbe essere il faro anche dei “nuovi marxisti”, i quali invece urlano che si tratta di una forma limite del capitalismo.
Invece, quella del desiderio di realizzazione come persona caratterizza l’individuo e il senso stesso della sua esistenza gli conferisce identità e dignità relazionale, con se stesso e con il mondo altro.
È stata la filosofa Luisa Muraro che nel 2013, ha riproposto la questione nei termini di una supremazia femminile circa la genitorialità: «Le coppie femminili che desiderano figli, possono averli e così già fanno, con il tacito consenso della società circostante. Il problema si pone alle coppie maschili, in quanto naturalmente sterili. La pressante richiesta maschile di poter adottare, potrebbe nascondere l’antica invidia verso la fecondità femminile». Una tesi che ha più volte ribadito nelle interviste e alla quale ha anche aggiunto: «Il problema dell’adozione è degli uomini, non delle donne. E dietro alla pressante richiesta maschile di poter adottare, potrebbe nascondersi un’antica invidia verso la fecondità femminile. Mi sbaglio? Non lo escludo, ma in tal caso l’uomo dica apertamente: perché non voglio chiedere a una donna il dono di diventare padre? Perché voglio fare la madre io?». Allora si trattava di adozione, oggi disurrogancy.
Una tesi inaccettabile se si ha come orizzonte i diritti universali; una tesi speculare alle discriminazioni che hanno afflitto e affliggono le donne, oltretutto argomentata appellandosi a una legge di “natura”.
A questo riguardo sono interessanti e da valutare con attenzione tesi come quelle proposte da Joan Tronto in relazione all’etica della cura, la quale si propone di liberarla dal suo tradizionale legame con la moralità femminile, poiché questo nesso sarebbe doppiamente deleterio in quanto spingerebbe a trattare natalità, mortalità e cura come questioni “da donne” e di conseguenza secondarie, e perché può essere usato per vincolare le donne alle soli funzioni materna e filiale. Si tratta di una posizione antiessenzialista che mi sento di poter condividere e questo perché proprio una supposta essenzialista superiorità nella cura o di una immaginaria mitezza femminile ha fatto sì che le donne siano ancora oggi – a partire dagli Stati Uniti per terminare con la Cina – quasi interamente escluse dal potere politico, istituzionale e culturale. Sarebbe necessario un processo di integrazione anche dell’etica della cura fra individui appartenenti ai diversi “sessi/generi” e questo sviluppo sarebbe bene facesse parte delle politiche degli Stati, i quali dovrebbero mettere in atto le condizioni per avviare un ripensamento della società così come è strutturata adesso, in modo tale che siano ridefiniti e riconfigurati i confini, di varia natura, che attualmente impediscono l’affermarsi di idee differenti.
Il processo in atto nel nostro paese sembra invece andare nella direzione opposta, tanto che la discussione di questi giorni mette drammaticamente di fronte al fatto che la gran parte delle riflessioni del femminismo degli anni ’70, ’80 e ’90, maturato all’interno del paradigma di pensiero costruttivista, si sia sciolto al sole di una società che si fonderebbe invece su una supremazia della realtà “naturale”. In quegli anni il bersaglio era la costruzione sociale del genere e non solo: donne, afro-americani, asiatici-americani, omosessuali, transessuali, rifugiati sono state categorie indicate come mere costruzioni sociali. L’insieme delle teorie femministe si sono sviluppate in un humus culturale in cui veniva rigettata qualsiasi visione metafisica e quindi degli studi sulla struttura base della realtà, di ciò che si è, di ciò che è e di come è. Oggi le donne e le femministe ripropongono una tesi metafisica basata nella differenza fra generi.
Un pensiero che, da un lato, ha valorizzato unicamente il fatto, incontrovertibile, che i concetti e le categorie che usiamo per pensare e descrivere la realtà influenzano e determinano quello che viene descritto, e che, dall’altro, ritiene che i valori sono incorporati nelle nostre categorie e descrizioni. Le femministe hanno considerato, in questa ottica, anche la relazione fra la struttura della realtà e il rapporto con il mondo naturale e il mondo sociale. Poiché le strutture sociali sono spesso giustificate come naturali, o necessarie, per controllare ciò che è naturale, le femministe si sono chieste se tali riferimenti alla natura fossero legittimi. Il che ha consentito un considerevole e notevole lavoro qualitativo e quantitativo intorno all’idea di costruzione sociale e, più specificamente, sulla costruzione sociale del genere.
Dopo aver assistito al potere di naturalizzare i “miti”, i femminismi di quegli anni hanno teso, giustamente, a diffidare di qualsiasi suggerimento che tenda a naturalizzare le categorie, poiché ciò che viene visto come naturale, solitamente, è utilizzato per dettare il modo in cui organizzare la società e i rapporti di potere all’interno di questa. Si sono così smascherati molti aspetti di codificazione dei due poli, derivanti dalle tradizioni culturali, sociali ed educative e si è denunciato di conseguenza il conservatorismo dei comportamenti che da questi ne derivavano, e in molti ambiti mai del tutto superati. Sono stati anni in cui è finalmente emersa un’immagine femminile ricca, articolata e in continuo mutamento in nome della libertà.
Le femministe hanno violato in maniera sistematica e intenzionale la tradizionale distinzione fra l’ambito del personale o privato e quello politico o pubblico. Il famoso slogan “il personale è politico” non si limitava a rigettare la tesi che questioni come quelle inerenti i privilegi dei maschi all’interno del matrimonio o delle convivenze, oppure la violenza sessuale o fisica, rimanessero relegate alle diverse articolazioni della complessità etica e morale individuale e non anche il centro della discussione politica e pubblica.
Mi sembra che i passi siano stati quelli del gambero.
Per quanto riguarda la surrogacy è indubbio che una donna può rifiutarsi di offrirne la possibilità, a un’altra donna o a un uomo, o al variegato mondo della sessualità naturale. Quello che c’è da normare è semmai la dimensione economica del fenomeno, non il fenomeno in sé, come dimostrano molte legislazioni estere che se ne occupano e che infatti escludono e puniscono ogni forma di cosificazione del corpo femminile e dove ogni logica commerciale viene bandita.
Inoltre, è emerso che è duro a soccombere lo stereotipo che siano le donne a desiderare la maternità. Il fatto che i maschi desiderino la genitorialità è vista come un’eccentricità, una stravaganza, un capriccio. Eppure sono le donne che hanno rivendicato il dato che la maternità non esaurisce il “senso della vita” e che quindi hanno rifiutato il cliché donna-mamma-femminilità-bontà-accudimento e di converso l’idea che gli uomini vengano “costretti” alla paternità dal desiderio di maternità.
Personalmente sono molto lieta che si assista, da un lato, alla “orgogliosa” rivendicazione, da parte maschile, del non avere alcun interesse alla paternità e di converso alla presenza di uomini che la desiderano così tanto che la realizzano accedendo a opportunità offerte dalle madri surrogate o dall’adozione possibile da parte dei singoli. Anzi, dovrebbero emergere ed essere legittimati anche nuovi stili di vita, che quelli QQIA, in modo da impedire che ciascun individuo non sia se stesso e non si senta bene, non si senta simbolo di qualcosa e questo sin da bambini.
Ciò che i soggetti si attendono dalla società è di vedersi riconosciuta la loro identità e la loro differenza collettiva. Del resto nelle teorie politiche e sociali contemporanee il concetto di riconoscimento, categoria della filosofia hegeliana, è divenuto il punto di riferimento delle richieste collettive e non individuali e dovrebbe essere “la” categoria intorno alla quale educare l’intero corpo sociale
In questa ottica non posso che dire “Benvenuto” Tobia Antonio, biologicamente figlio del mondo, visto che pare tu abbia seme canadese, ovulo californiano, utero indonesiano. Speriamo che all’anagrafe tu possa registrarti come pugliese.
Fonte: Scenari Mimesis
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