di Marco Sferini
Poco dopo la sua vittoria nello stato del Vermont, Bernie Sanders si è rivolto ai suoi sostenitori e ha ripetuto quello che da mesi va dicendo sulla situazione della politica e della società statunitense. Un discorso dove i temi toccati erano al centro di una necessità di giustizia sociale che, difficilmente, potranno garantire i repubblicani e, allo stesso modo, nemmeno Hillary Clinton.
C’è un vero e proprio abisso tra la proposta politica della moglie dell’ex presidente americano e quella portata avanti dal settantenne senatore socialista. Dichiaratamente tale.
Del resto, si sa, il Vermont viene definito da tutti i politologi e gli analisti come “lo stato più di sinistra” negli Usa. Anche se le categorie che noi abitualmente usiamo in Italia e in Europa per definire le forze politiche, hanno tutt’altro senso e sapore nella grande Repubblica stellata.
Sanders è socialista e democratico, ma non è scevro da contraddizioni. La sua vita politica da senatore la inizia appoggiando la lobby di quei tanti cacciatori del Vermont che, di conseguenza, l’hanno economicamente sostenuto molti, molti anni fa…
Ognuno ha i suoi scheletri, piccoli o grandi che siano, nell’armadio della vita. Questo sembra l’unico “meno di sinistra” e poco coerente con l’attuale corso politico di “Bernie”.
Il voto che riceve è soprattutto giovanile: i sondaggi e le analisi dei flussi dei consensi, dicono che raccoglie più del 60% dei voti da chi è sotto il 45esimo anno di età. Al di sopra di questo confine temporale, l’elettorato democratico si divide: la maggior parte degli ultra 45enni si esprime, infatti, per Hillary Clinton.
Ciò non toglie che Sanders riesca a conquistare, con la vittoria in quattro stati, ben 321 delegati. Il distacco con la capolista resta ampio, ma qualche possibilità il vecchio socialista ce l’ha ancora per provare una faticosa rimonta.
Quello che importa rilevare e sottolineare è la voglia proprio di giustizia sociale che si sta facendo largo tra le giovani generazioni americane.
Bernie parla di lavoro non subordinato ai numeri di Wall Street: “Non saranno contenti delle nostre vittorie i miliardari, i signori della borsa”. Lo dice senza infingimenti, apertamente, senza alcun pelo sulla lingua. E’ la sua fisionomia politico-sociale che emerge, e continua: “Dobbiamo non cambiare, ma fare una rivoluzione politica in questo Paese”. Rivoluzione. Politica, certamente. Ma pur sempre di rivoluzione parla l’energico Bernie.
E ascoltare queste parole in una nazione profondamente conservatrice come gli Stati Uniti d’America fa una certa impressione.
Ma Sanders non è un demagogo, un populista come Donald Trump, e riempie di contenuti questa “rivoluzione politica” cui vuole dare seguito. Dopo il lavoro, cita l’istruzione: “L’accesso alle scuole dovrebbe essere tutelato e garantito e dovrebbe essere gratuito fino ai più alti gradi universitari”.
Sembra di sentir parlare un comunista, ma, ricordiamocelo, le categorie politiche americane non corrispondono alle nostre. Eppure la gente applaude questo non giovane senatore del Vermont che sfida chi rappresenta non l’estremismo parolaio, xenofobo e autoritario di un magnate come Trump, che imbarazza persino i repubblicani, ma una signora attempata che si propone di mantenere lo status quo.
Nessuna “rivoluzione politica” per Hillary Clinton, ma la promessa di più impegno per limitare solo quei normali eccessi che si riscontrano in ogni campo della vita sociale del Grande Paese.
Sanders è sinonimo di socialismo? Difficile poterlo stabilire con il nostro metro culturale occidentale.
Una cosa posso dire, uscendo dai soliti canoni interpretativi: io, sentendo il suo discorso l’altra notte in tv, ho pensato che se diventasse presidente degli Stati Uniti d’America, proverebbe a dirottare molte spese dalle guerre alla sanità pubblica e all’istruzione.
Ho pensato che proverebbe a fermare le lobby delle armi che fanno commerci sia interni che esterni. Ho pensato che Sanders tenterebbe di rendere egualitario il piano dei diritti civili e che, vista la sua visione del lavoro, metterebbe in campo un rapporto diverso tra sindacati e governo, tra lavoratori e padroni.
Ho pensato che, se fosse presidente degli Usa, proverebbe soprattutto a tendere la mano della politica verso i più deboli. Non sarà la rivoluzione che voglio io, ma sarebbe quella che molti americani si aspettano e che né Clinton e, tanto meno il nazionalista-populista Trump, possono dare loro.
Poi, ho pensato, alla fine, che se gli andasse male nel suo Paese, potremmo rivolgergli un appello accorato e chiedergli di venire da noi, per spiegare prima a noi, uomini e donne della sinistra, e poi anche a tutto il resto della gente, quali sono i valori che abbiamo perso per strada, perché ci stiamo dimenticando che dobbiamo fare (e reinventare) una lotta di classe e dire, ripetere fino alla noia che i ricchi devono pagare e i poveri devono essere tutelati.
Ma non basta… Serve anche in Italia una “rivoluzione politica” che metta al centro di tutto i rapporti sociali e antisociali: che faccia della rabbia diffusa un grimaldello per sollevare il coperchio dell’indifferenza sulla pentola della rassegnazione.
Forza Bernie!
Fonte: La sinistra quotidiana
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