di Simone Pieranni
Il professor Wang Hui viene solitamente considerato all’interno di quella scuola di pensiero che viene chiamata «nuova sinistra cinese». A torto, specie anni fa, questo filone di pensiero è stato incastonato all’interno di una più variegato corrente di «neo maoismo» che faceva esplicito riferimento al «modello Chongqing» e all’astro nascente della politica nazionale, Bo Xilai: si tratta di un errore, perché un conto è il pensiero politico e critico di Wang Hui, che di sicuro ragiona su Mao, un conto sono le fazioni interne al partito comunista.
Eventualmente non può considerarsi un errore, invece, attribuire alla «nuova sinistra cinese» un peso, benché relativo, durante la presidenza di Hu Jintao e il premierato di Wen Jiabao, nel decennio tra il 2002 e il 2012, quando allo «sviluppo scientifico» venne associata una necessaria ricerca di «eguaglianza» quanto meno nelle intenzioni di governo. Di sicuro la caduta di Bo Xilai ha provocato uno scossone non solo nella fazione politica che rappresentava all’interno del partito, ma anche nel più variegato mondo che rifletteva e discuteva circa la direzione politica ed economica che la Cina avrebbe dovuto prendere.
E la presidenza di Xi Jinping, se sembrava aver bloccato tutta una serie di riflessioni – con il suo tentativo di tenere tutto, dal maoismo, al mercato, alla lotta alla corruzione – ha finito per rendere ancora più necessaria una riflessione con lo stile e l’acume di Wang Hui: mai come oggi la Cina è inserita in processi globali che ne evidenziano caratteristiche proprie e generali e che determinano la necessità di una riflessione di «sinistra» capace di tenere insieme tanto la storia specifica del paese, quanto lo sviluppo globale del capitalismo.
«Alla sua radice, scrive Wang Hui, la crisi della rappresentanza è un prodotto del neoliberismo nella sfera politica, in quanto è una conseguenza della depoliticizzazione». Insieme alla produzione, l’affacciarsi di metodologie di governo simili, uniti nel nome di una polarizzazione sociale che finisce per diminuire il campo autonomo della politica, comportano la necessità di un pensiero che sappia tenere insieme storia nazionale e quanto accade nel resto del mondo. La voce di Wang Hui costituisce una importante visione della Cina di oggi e non solo, perché uno dei meriti della sua produzione è quello di introdursi in un più globale dibattito politico.
In una intervista Wang Hui racconta di quando, durante un incontro con il leader della socialdemocrazia tedesca Sigmar Gabriel, accomunò i sistemi democratici occidentali e quello cinese, nel riscontrare la stessa problematica legata alla questione della crisi della rappresentanza. Il pubblico e Gabriel, racconta Wang Hui, furono stupiti di questo «avvicinamento».
Nei motivi dello stupore rientra sicuramente un flusso informativo che descrive la Cina in modo superficiale, senza indagare il profondo senso politico del paese, senza sottolinearne le dinamiche e senza riscontrare quanto è palese, ovvero un avvicinamento globale dei sistemi di governo, frutto di larghe coalizioni e rappresentanti di una fascia, minoritaria, della popolazione, costituita da ricchi oligarchi e magnati.
Nel raccontare la discussione con Gabriel, Wang Hui riscontra inoltre che «nel contesto europeo il socialismo è immediatamente avvicinato a un concetto di dispotismo e dominio totalitario e senza alcuna regola. Il tenore è sempre solo ed esclusivamente negativo. Ma l’eredità del socialismo è ricca e complessa, e dobbiamo giungere a un conclusione critica al riguardo».
L’eredità del pensiero di Mao Zedong dunque «è tanto l’oggetto del nostro pensiero quanto un metodo che possiamo usare per riflettere sulle nostre pratiche politiche. Dovrebbe essere da questo punto di vista che noi dovremmo far rivivere la sua eredità».
Fonte: il manifesto
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