di Tomaso Montanari
Il 20 dicembre, cioè due settimane dopo il trionfo del No al referendum costituzionale, la Camera ha votato definitivamente la ratifica all’accordo tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori del Treno ad Alta velocità tra Torino e Lione. Un voto che ha assai più a che fare col passato che col futuro: non solo perché il progetto risale al 1990 (quell’anno, per dire, Sanremo fu presentato da Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci, e fu vinto dai Pooh), ma perché dimostra in modo plateale la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di leggere la direzione in cui si muove il Paese.
Uno dei cuori della riforma costituzionale firmata da Matteo Renzi, infatti, riguardava proprio le Grandi Opere: le si definivano strategiche per l’interesse del Paese, e si stabiliva che esse fossero decise dal governo di Roma, tagliando completamente fuori le Regioni. Il sindaco d’Italia giurava che avrebbe preso quelle cruciali decisioni nell’interesse delle comunità condannate al silenzio, ma quelle comunità non gli hanno creduto.
Uno dei motivi di questa radicale sfiducia è legato proprio all’esperienza nera della Val di Susa. Qui, nella notte di Ognissanti del 2005, mille agenti caricarono un gruppo di manifestanti guidati da numerosi sindaci: “Quindici fasce tricolori. Pubblici ufficiali contro pubblici ufficiali, la forza armata dello Stato mandata a sbaragliare quelli che in teoria erano suoi rappresentanti”.
Quella notte “i No Tav avevano dalla loro tre forze: quella della ragione, quella della disperazione, quella della gravità perché gli agenti erano in numero soverchiante ma spingevano in salita”. Sono brani estratti da uno straordinario libro recente di Wu Ming 1 (Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi, 2016), che consegna la vicenda della Val di Susa all’epopea nazionale. E permette anche al pubblico più vasto di conoscerla nei minimi, documentatissimi, dettagli: e l’immagine che ne esce non ha a che fare con le Grandi Opere, ma con la questione della democrazia.
La memoria dei sindaci caricati dalla polizia impediva di credere all’immagine sorridente del sindaco d’Italia che sa qual è il bene delle più remote comunità. E invece rafforzava la convinzione che – per dirla con le parole di Papa Francesco – in ogni decisione “devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato”.
L’inderogabilità dell’autodeterminazione delle comunità nel governo del proprio territorio: ecco il vero frutto politico di 25 anni di lotta in Val di Susa. Tra le ragioni del No al referendum c’è anche questa: gli italiani non sono disposti a cedere sovranità su questo punto. Non per caso, alla campagna del No ha attivamente partecipato Nicoletta Dosio, una mitissima cittadina della Val di Susa che la Procura di Torino avrebbe voluto prima agli arresti domiciliari e ora fuori dalla Valle.
D’altro canto, solo chi ignora la nostra storia può stupirsene: il rapporto viscerale tra comunità e ambiente è uno dei tratti più profondi della nostra identità, come dimostra il fatto che la parola “nazione” figuri tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9) solo in rapporto appunto al “paesaggio”, vale a dire al territorio.
Per questo è davvero lunare ascoltare il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino dichiarare, dopo il voto della settimana scorsa, che “la morale è che bisogna sentire le comunità coinvolte. La svolta è arrivata infatti con la nascita dell’Osservatorio nel 2005”. Non ci potrebbe essere un capovolgimento più clamoroso della verità: quel grottesco Osservatorio avrebbe avuto, almeno in teoria, il compito di decidere se fare il Tav o no, ma era presieduto da quello stesso Mario Virano che, come commissario del progetto, aveva invece il compito di realizzarlo senza se e senza ma.
D’altra parte, proprio la verità è la più frequente vittima della battaglia intorno al Tav: si pensi al processo intentato a Erri De Luca (poi assolto) o all’inaudita condanna di una studentessa (Roberta Chiroli), accusata di aver manifestato, nella propria tesi di laurea, un’adesione alle azioni dei no Tav. Capovolgere la verità, ignorare la realtà: la maggioranza di questo Parlamento illegittimo corre spensierata sulla strada che l’ha già portata a sbattere contro il muro del 4 dicembre. I moventi che la guidano sono più forti dello stesso istinto di sopravvivenza, perché hanno a che fare con i grumi di interesse che dettano l’agenda del Paese.
Nel 1974 un leader per nulla ambientalista come Enrico Berlinguer comprendeva che era urgente mettere fine “al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati: di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere”. Una lezione del tutto inascoltata, se oggi Enrico Rossi – che si candida a guidare il Pd ‘da sinistra’ – è ben deciso a sventrare la Maremma per un'autostrada che servirà solo a chi la farà, e frontalmente avversata dalle comunità locali.
Ma una cosa il 4 dicembre l’ha insegnata: qualunque rinnovamento della politica si voglia attuare, non può che passare attraverso il rafforzamento del rapporto tra comunità e governo del territorio. Fuori da questo nesso elementare non c’è futuro per la democrazia in Italia.
Fonte: Il Fatto Quotidiano
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