di Giovanni Orlandini
Da giorni sulla stampa nazionale e su pagine web più o meno autorevoli risuona con forza l'opinione di chi si dichiara certo della non correttezza del quesito referendario sul Jobs Act finalizzato a riportare in vita l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua versione originaria. Il quesito, si afferma, non sarebbe stato formulato correttamente e, perciò, sarebbe destinato a incappare nella dichiarazione di inammissibilità da parte della Consulta. Questa opinione nelle pagine del Corriere è persino fatta avallare da "ambienti vicini alla Corte". Quali siano questi ambienti non è dato sapere.
Certo è che ad altri ambienti -che con la Corte non hanno niente a che fare- non piace l'idea di far votare gli italiani sulla parte più qualificante del Jobs Act; e la campagna in atto appare come un improprio tentativo di influire sulla decisione dei giudici delle leggi. Per questo motivo è opportuno fare chiarezza sugli argomenti invocati da chi non vuole che il referendum si svolga, riportando la questione sul piano strettamente tecnico-giuridico; visto che la decisione che la Corte è chiamata a prendere non riguarda il merito della delicata materia oggetto del referendum.
Il primo argomento "anti-referendum" si basa sulla consolidata giurisprudenza costituzionale per la quale un quesito referendario deve essere omogeneo, chiaro e non contraddittorio. Tale, si sostiene, non sarebbe quello sul licenziamento perché articolato in modo da contenere non una, ma ben tre domande: la prima, relativa all'abrogazione della nuova disciplina applicabile agli assunti dopo l'entrata in vigore del Jobs Act (il c.d. contratto a tutele crescenti); la seconda, finalizzata ad abrogare le modifiche all'art.18 introdotte dalla riforma Fornero, valevoli per gli tutti altri lavoratori; la terza, mirante ad ampliare l'ambito di applicazione dello stesso articolo 18, estendendolo alle imprese con più di 5 dipendenti.
In realtà l'argomento in questione è erroneo, perché scambia la chiarezza del quesito con la chiarezza delle norme delle quali si chiede l'abrogazione. Il quesito sul quale si invitano gli italiani a esprimersi è chiaro ed è formulabile in modo inequivocabile: il fine è ripristinare l'articolo 18 nella sua versione originaria estendendone l'applicazione alle imprese con più di 5 dipendenti. Nessuna incoerenza né disomogeneità.
La disomogeneità non sta evidentemente nel quesito, quanto piuttosto nel cervellotico impianto normativo che è necessario smantellare per raggiungere lo scopo "chiaro e coerente" che con il referendum si intende raggiungere.
Il secondo argomento "anti-referendum" si basa sul supposto carattere manipolativo del quesito, che non si limiterebbe ad abrogare una normativa esistente ma mirerebbe a crearne una nuova; ciò in particolare grazie a una chirurgica operazione di ritaglio del comma 8 dell'art. 18, che permette di estendere l'ambito di applicazione delle tutele per licenziamento a tutte le imprese con più di 5 dipendenti. Ne uscirebbe così stravolta la norma e con essa la funzione dello strumento referendario, che come noto nel nostro ordinamento non può avere carattere propositivo.
Anche in questo caso l'argomento non regge, perché sfrutta un richiamo forzato e strumentale di precedenti della Corte costituzionale. Le ipotesi nelle quali la Consulta ha concluso per il carattere manipolativo del quesito sono ben diverse da quella in questione e sono per altro risalenti. L'orientamento recente della Corte è nel senso di ammettere pacificamente quesiti che "ritagliano" parole e frasi all'interno di un testo normativo, purché l'operazione non finisca per saldare disposizioni che non hanno niente in comune (come fu, per esempio, nel caso della richiesta di referendum sulla pubblicità in Rai del 1997, che infatti non si è mai svolto).
Intervenendo sull'art.18, invece, ci si limita a chiedere l'abrogazione di una parte della norma relativa al suo ambito di applicazione, facendo salvo il limite previsto da quella stessa norma per le imprese agricole (5 dipendenti) e sopprimendo quello di carattere generale (15 dipendenti). Niente di diverso da quanto avvenne con un altro referendum in materia di lavoro: quello del 1995 con il quale, attraverso il ritaglio dell'art.19 dello Statuto dei lavoratori, si ricavò un nuovo criterio selettivo per la costituzione delle rappresentanze sindacali (aver firmato un contratto collettivo applicato in azienda e non più essere organizzazioni maggiormente rappresentative).
Nessuna manipolazione dunque che non sia ammessa dai principi costituzionali. Per altro proprio sulla soglia dei dipendenti nella disciplina del licenziamento, la Corte costituzionale si è già espressa in occasione del referendum del 2003 che si proponeva di eliminarla del tutto (referendum poi fallito per assenza del quorum): se allora la normativa non è stata ritenuta "stravolta" con l'azzeramento del numero dei dipendenti, a fortiori non può esserlo oggi lasciando in vita la soglia dei 5 dipendenti.
Il diritto, si sa, non è una scienza esatta e per questo motivo la decisione della Corte non può dirsi comunque scontata. Certo è però che l'assertività con cui sono presentati e diffusi gli argomenti a favore dell'inammissibilità del quesito referendario, se è ben spiegabile politicamente, giuridicamente è del tutto ingiustificata.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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