di Gianpaolo Cherchi
Che Reinhart Koselleck fosse un pensatore conservatore, aderente a posizioni di retroguardia e sostenitore di una razionalità politica in grado di tenere a freno e di arginare le istanze utopiche prodottesi con la critica illuminista, è cosa nota. Ed è probabilmente a causa delle sue posizioni conservatrici che il suo lavoro è sempre stato trattato marginalmente, nonostante sia stato tradotto in diverse lingue e fosse conosciuto da oltre mezzo secolo. A dieci anni dalla sua scomparsa la sua opera – uno sconfinato cantiere aperto di difficile collocazione disciplinare, che viene fatto rientrare in quell’ampio e variegato filone della Begriffgeschichte (storia dei concetti, o storia delle idee) – può oggi venir trattata in maniera sistematica.
Ed è in questo senso che si colloca il lavoro di Gennaro Imbriano, recentemente pubblicato da DeriveApprodi dal titolo Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck (pp. 411, euro 25). Oltre a fornire una ricostruzione completa ed esauriente del percorso intellettuale del pensatore tedesco (avvalendosi del prezioso supporto di diverso materiale inedito, come i vari carteggi con Carl Schmitt, Hans-Georg Gadamer e Hans Blumenberg), il libro ha il prezioso merito di offrire un’analisi dettagliata e minuziosa sul carattere peculiare della riflessione koselleckiana. Il rifiuto dello specialismo e lo sguardo aperto sulla storia, che si situa in un intreccio plurimo di discipline, fra le quali la scienza politica, consente a Koselleck di elaborare una riflessione metodologica originale che interseca i processi sociali con l’evoluzione delle idee storiche e politiche.
Ed è in questo senso che si colloca il lavoro di Gennaro Imbriano, recentemente pubblicato da DeriveApprodi dal titolo Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck (pp. 411, euro 25). Oltre a fornire una ricostruzione completa ed esauriente del percorso intellettuale del pensatore tedesco (avvalendosi del prezioso supporto di diverso materiale inedito, come i vari carteggi con Carl Schmitt, Hans-Georg Gadamer e Hans Blumenberg), il libro ha il prezioso merito di offrire un’analisi dettagliata e minuziosa sul carattere peculiare della riflessione koselleckiana. Il rifiuto dello specialismo e lo sguardo aperto sulla storia, che si situa in un intreccio plurimo di discipline, fra le quali la scienza politica, consente a Koselleck di elaborare una riflessione metodologica originale che interseca i processi sociali con l’evoluzione delle idee storiche e politiche.
LA SUA INDAGINE intende individuare quella «soglia epocale» in cui è possibile far risalire l’origine della parabola moderna, che Koselleck colloca in quell’arco temporale in cui matura il pensiero illuminista, con la sua vocazione alla critica e all’utopia.
Lungi dal leggere i processi storico-politici incarnandoli nelle grandi personalità della storia, Koselleck si produce in una analisi storico-concettuale che gli consente di individuare il nesso fra i processi storici e l’evoluzione dei concetti politici, rilanciando così l’importanza del rapporto fra pensiero e prassi, fra lingua e storia.
La modernità viene letta dal pensatore tedesco sotto l’insegna della crisi, intesa come «la condizione strutturale propria del mondo contemporaneo». L’intera produzione di Koselleck può essere pertanto letta come un vero e proprio «pensiero della crisi», che rintraccia la sua origine, ne indaga lo sviluppo e tenta di definire la possibilità di un suo governo attivo.
Sorta nel secolo diciottesimo all’ombra della critica illuminista, tale critica si manifesta inizialmente, come fenomeno morale, e dunque impolitico; il quale, tuttavia, mettendo in discussione l’assolutismo, l’ordine politico precedente, finisce per svolgere una funzione politica. In tal modo si generano le storture della modernità, le sue ambiguità e le sue lacerazioni, che sono determinate dalle strutture dualistiche imposte dalla critica stessa: la critica possiede insomma un carattere «critico», in quanto generatrice di crisi.
CRITICA E CRISI sono dunque indissolubilmente collegate nella misura in cui la prima contiene già in sé stessa il germe della crisi.
In questo senso Koselleck legge la modernità come lo spazio del conflitto, della «guerra civile planetaria», e la sua indagine è finalizzata a produrre quell’armamentario teorico in grado di neutralizzarne le storture e gli effetti distruttivi, che rischiano di compromettere l’equilibrio sociale. E tuttavia egli non intende porsi in maniera polemica nei confronti della modernità. Al contrario, intende portare alla luce le storture dei suoi esiti illuministici, rintracciandone l’ambiguità e la duplicità in questa doppia azione della critica illuministica: da un lato la critica razionalistica che accelera i processi di secolarizzazione, che svuota l’autorità religiosa detronizzandola e riducendone progressivamente il potere temporale; dall’altro lato la sostituzione di tutto questo con la previsione utopistica di una filosofia della storia incentrata sul progresso e sulla fattibilità. È, infatti, soprattutto la tendenza alla temporalizzazione e all’utopia, all’elaborazione di una filosofia della storia, che Koselleck indica come il maggior elemento di stortura dell’illuminismo, come la volontà di progettare e predeterminare il futuro. La critica razionalistica degli illuministi produce quei concetti per mezzo dei quali, d’ora in avanti, la storia può esser vista come uno «spazio d’esperienza» proiettato verso un «orizzonte d’aspettative» che ha l’infausto obiettivo di «presentificare il futuro», di predeterminarlo e programmarlo.
MALGRADO I DIVERSI elementi conservatori (rintracciabili ad esempio nell’immagine della modernità come «guerra civile planetaria», nell’idea della storia come spazio del conflitto, in piena adesione alla dicotomia schmittiana amico/nemico), la riflessione koselleckiana sulla modernità è tuttavia capace di fornire un’apertura, una possibilità insita nella storia: proprio perché luogo di conflitto, proprio perché viene rappresentata come un grande campo di battaglia fra identità contrapposte, proprio in questo elemento agonale che la caratterizza essa mantiene la possibilità di un «farsi», di una apertura che sfugge da qualsiasi tentativo di progettualità predeterminante.
Fonte: il manifesto
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