di Franco Astengo
Proprio nel giorno della sanzione riguardante i 1.600 licenziamenti di Almaviva, dalla Corte di Cassazione arriva la conferma del clima pessimo che, in Italia, si sta respirando verso i diritti e la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori sempre più esposti al vento dello sfruttamento e della ricerca indiscriminata del profitto da parte di coloro che debbono essere ancora chiamati “padroni” senza tema di apparire legati a schemi antichi. Schemi antichi ma purtroppo ancora e sempre validi.
“Si può licenziare per fare più profitti”: un verdetto della Cassazione legittima la disdetta del rapporto di lavoro, anche se l’azienda non è in crisi.
La sezione lavoro della Cassazione ha così sposato la tesi della prevalenza, dal punto di vista Costituzionale, dell’articolo 41 che sancisce la libertà d’impresa proprio di questo concetto considerando evidentemente superati i commi 2 e 3 dello stesso articolo 41, laddove si dispone che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla libertà, sicurezza e dignità umana (cosa può accadere di peggio per la dignità umana se non perdere il lavoro per far posto alla crescita indiscriminata del profitto?) e – al comma 3 – si prevede che il legislatore debba fissare i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere utilizzata e coordinata a fini sociali.
Il legislatore, al contrario ha invece legiferato, attraverso il Job Act, per l’intensificazione dello sfruttamento, la precarietà, la disponibilità della forza lavoro a esigenze indiscriminate di profitto e di soggezione ai valori dell’impresa capitalistica.
Questa sentenza della Cassazione appare proprio in linea con questo tipo di pessimi principi e dimostra come ci si intenda muovere, dal punto di vista del potere, in pieno dispregio del dettato costituzionale e quindi della stessa opinione della maggioranza del corpo elettorale così come espresso il 4 Dicembre scorso.
E’ necessario ricordare, ancora un volta, che il 4 Dicembre con il voto referendario al di là degli articoli specifici posti in discussione sono stati, soprattutto, riaffermati l’articolo 1, quello che recita della Repubblica fondata sul lavoro, e l’articolo 3 laddove c’è scritto di eguaglianza di tutti davanti alla legge.
Da notizie di stampa si apprende che dovrebbe essere in atto, nel seno della Corte Costituzionale, uno scontro al riguardo dell’ammissibilità del referendum abrogativo proprio al riguardo della legge sul Job Act, quella dei voucher e dei licenziamenti indiscriminati.
Esiste un solo modo per rispondere a questo insieme di indiscriminati attacchi tendenti a rendere la condizione lavorativa risulti più esposta indiscriminatamente alle logiche dello sfruttamento e del profitto.
La sola risposta possibile è quella della riorganizzazione di un conflitto di fondo proprio sul tema del lavoro, in modo da porre in discussione un vero e proprio spostamento dalla prevalente centralità dell’impresa alla centralità delle lavoratrici e dei lavoratori.
In un Paese che deve reagire all’impoverimento e alla paura del precariato la crescita delle ragioni del conflitto sociale appare come l’impegno di gran lunga prioritario per le forze sindacali e politiche più coerenti e in linea con la storia e l’identità della classe lavoratrice.
Fonte: controlacrisi.org
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