di Nigrizia
È un’esperienza unica. Che si mette di traverso ai soliti e triti luoghi comuni sull’Africa. Per questa ragione abbiamo deciso di dedicarle la copertina del primo numero del 2017 di Nigrizia. Si tratta della rivolta del movimento dei contadini burkinabè, che in questi anni ha messo in ginocchio il colosso americano dell’agroalimentare Monsanto, da poco acquisito dalla tedesca Bayer. Il rifiuto dei produttori di cotone di sottomettersi alla logica “produttivistica” e ai dogmi del mercato ha costretto la multinazionale, non solo ad abbandonare la sperimentazione di semi geneticamente modificati (ogm) in quel paese, ma a chiudere il proprio quartier generale regionale in Burkina.
Una battaglia, quella dei contadini, nata da illusioni che si sono infrante sugli scogli della realtà. Si sono accorti, infatti, che facendola finita con le sementi ogm del cotone BT di Monsanto le cose funzionavano perfettamente: non solo il raccolto era ottimo, ma il prodotto, di eccellente qualità, si vendeva bene e a un maggior prezzo. Inevitabile, quindi, il ritorno alle sementi tradizionali.
Il matrimonio Monsanto-Burkina Faso risaliva al 2009 e si basava su alcune promesse straordinarie che accompagnavano la sperimentazione del cotone ogm: meno lavoro, più rendimenti, più profitti. Monsanto voleva cambiare la vita del paese dell’Africa occidentale. Ma era una finzione. I produttori l’hanno compreso in fretta: il cotone bt ogm non era di buona qualità e si vendeva male. Il divorzio era obbligato. E per i contadini burkinabè, paradossalmente, il futuro si è rivelato un ritorno al passato. Alla tradizione.
Una presa di consapevolezza che ha tracimato dai confini dell’ex Alto Volta per allagare anche una quindicina di altre nazioni dell’Africa occidentale. Una rivolta contro l’esuberanza muscolare di un sistema economico che vorrebbe tutto e tutti omologati e sottomessi a un solo modello di sviluppo. Dove chi detta le leggi è chi s’aggira nel globo tronfio delle proprie ricchezze.
Ma l’esperienza burkinabè – e degli altri movimenti contadini dell’Africa occidentale, che hanno assunto consapevolezza di sé anche grazie agli spazi offerti loro dai social forum africani – cosa ci insegna? Facciamo tesoro di quel che accade sulle sponde africane dell’Atlantico? Poco. O niente. La maggior parte di noi neppure sa dell’esistenza di quel movimento. L’informazione mainstream se ne disinteressa. E chi è preposto a costruire modelli di cooperazione, e a finanziarli, è in ansia per altre emergenze. Per lavarcene le mani, la maggior parte delle risorse destinate ad attività di cooperazione allo sviluppo va a banche ed enti internazionali. Oltre la metà di quel che rimane a disposizione è impegnato nell’affrontare l’emergenza rifugiati, con una torsione evidente del significato proprio di cooperazione, dato che molti di quei finanziamenti restano in Italia e non finiscono ai paesi in via di sviluppo. Nel 2015, solo il 5,4% dell’aiuto pubblico allo sviluppo italiano è finito in progetti legati all’agricoltura: eppure si tratta di un’attività definita prioritaria dai documenti governativi.
Ci riempiamo la bocca e ingolfiamo i giornali con la formula magica: «Aiutiamoli a casa loro». Ma nella traduzione corrente significa solo: «Teniamoli distanti da noi. Meglio con la forza». Il 15 dicembre scorso, a Bruxelles, è stato siglato un accordo europeo con il Niger: 610 milioni di euro di nuovi aiuti. La motivazione ufficiale: «Eccellente la sua cooperazione in materia di lotta all’immigrazione irregolare e la sua determinazione ad agire contro le organizzazioni criminali dei trafficanti e contro la corruzione». La Commissione europea, il giorno prima, aveva dichiarato che il Niger, paese chiave delle rotte dall’Africa occidentale verso la Libia, aveva ridotto del 98% il passaggio di migranti e profughi tra maggio e novembre.
Finanziamo i paesi africani solo se si trasformano in gendarmi a difesa delle nostre paure.
Il timore di molti è che anche i 200 milioni stanziati da Roma per il Fondo Africa – solo per il 2017, anno del G7 a Taormina – abbiano quello scopo. Del resto, è il governo stesso a non nasconderlo, quando ammette che quelle risorse servono anche «per rafforzare le intese sui rimpatri e per crearle dove ancora non sono in vigore, innanzitutto in Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal e Niger».
Aiutare gli africani a creare le condizioni per scommettere sul loro futuro è un impegno trascurato dai documenti italiani ed europei. L’origine dei flussi migratori, per noi, è causata solo da barriere troppo basse e senza filo spinato ai confini africani. Gli aiuti allo sviluppo servono solo per alzarle.
Le battaglie dei contadini burkinabè o dei pastori peul del Niger, invece, sono solo storie che intralciano il senso comune dominante. E che, per questo, devono essere ignorate.
Non da noi.
Fonte: Nigrizia.it
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