di Bia Sarasini
Se c’è un leader mondiale che fa appello al popolo, questo è papa Francesco. Da subito, appena eletto, la sera in cui si affacciò per la prima volta a piazza San Pietro, il 13 marzo 2013, e, tra lo stupore generale chiese al popolo di benedirlo: «…vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo». Al popolo ha fatto riferimento anche in questi giorni, per esempio nell’omelia che ha tenuto durante la messa della notte di Natale. A partire da una citazione dal profeta Isaia: «‘Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce’ (Is 9,1) La vide la gente semplice, la gente disposta ad accogliere il dono di Dio.
Al contrario, non la videro gli arroganti, i superbi, coloro che stabiliscono le leggi secondo i propri criteri personali, quelli che assumono atteggiamenti di chiusura».
Al contrario, non la videro gli arroganti, i superbi, coloro che stabiliscono le leggi secondo i propri criteri personali, quelli che assumono atteggiamenti di chiusura».
L’affidamento al popolo di papa Bergoglio lo ha sottolineato Juan Carlos Scannone, il gesuita argentino che è stato suo professore, in un libro pubblicato nel 2015, Il papa del popolo (Libreria Editrice Vaticana). Ma cosa intende, papa Bergoglio, quando parla di popolo? Il popolo di Dio, quello invocato dal Concilio Vaticano II? O i cittadini del mondo?
Se si è inclini a pensare che il popolo di Francesco sia un corpo mistico, un insieme di credenti che esclude chi non è battezzato, ecco quanto da cardinale, a Buenos Aires nel 2010, un discorso pubblicato nel 2013 da Jaka Book con il titolo Noi cittadini, noi popolo: «Cittadino non è il soggetto preso individualmente come lo presentavano i liberali classici…Si tratta di persone convocate a creare un’unione che tende al bene comune. Essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati ad una lotta, lotta di appartenenza ad una società e ad un popolo. Lotta per smettere di essere mucchio, di essere gente massificata, per essere persone, per essere società, per essere popolo».
Che il popolo sia il riferimento e la guida, non ci sono dubbi. Anche solo questi ultimi mesi del 2016 sono la testimonianza di una predicazione e azione incessante. Ad Auschwitz, il 29 luglio, sceglie il silenzio. Ma queste sono le parole che lascia scritte: «Signore abbi pietà del tuo popolo, Signore, perdona tanta crudeltà».
In nome del popolo di Dio che ha mai voluto dividersi, affronta l’anniversario dei 500 anni della Riforma protestante, la grande scissione del cristianesimo. «Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo» dice in un’intervista diffusa da Civiltà Cattolica, che provoca sconcerto. Parole confermate nel discorso tenuto nella cattedrale di Lund, in Svezia, dove era stato invitato per l’anniversario. Si deve «riconoscere» con «onestà», dice nell’omelia ecumenica, «che la nostra divisione si allontanava dal disegno originario del popolo di Dio», «ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele». Il 24 novembre, nel messaggio per il Festival della dottrina sociale della Chiesa a Verona avverte: «Quando il popolo è separato da chi comanda, quando si fanno scelte in forza del potere e non della condivisione popolare, quando chi comanda è più importante del popolo e le decisioni sono prese da pochi o sono anonime o sono dettate sempre da emergenze vere o presunte, allora l’armonia sociale è messa in pericolo con gravi conseguenze per la gente: aumenta la povertà, è messa a repentaglio la pace, comandano i soldi e la gente sta male».
Ma non si tratta solo di un problema sociale. Il 13 dicembre 2016 ammonisce così i sacerdoti: «Il male del clericalismo è una cosa molto brutta! … E la vittima è la stessa: il popolo povero e umile, che aspetta nel Signore».
In effetti non c’è da stupirsi. Nella Gaudium evangelii il termine ‘popolo’ compare 164 volte. È il popolo la fonte di autorità, anche per i vescovi, secondo l’insegnamento del Vaticano II. L’èlite ecclesiale non ha una legittimità assoluta, non è investita da Dio come lo erano i monarchi assoluti. Non c’è aristocrazia. Non dello spirito, non del sangue, tantomeno della finanza.
Nel novembre 2016 papa Francesco ha incontrato per la terza volta dalla sua elezione i movimenti popolari del mondo. Il 5 novembre, nel discorso tenuto ai convenuti a Roma riuniti nell’Aula Nervi, ha chiesto loro di «continuare ad aprire strade e a lottare. Questo mi dà forza, questo ci dà forza». Poi ha toccato tre punti. Il primo, il terrore e i muri: «La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli» Il secondo, l’Amore e i ponti.«Un progetto-ponte dei popoli di fronte al progetto-muro del denaro». E nel terzo ha affrontato il rapporto tra “popolo e democrazia?”, dibattuto nell’incontro: «Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle. I movimenti popolari, lo so, non sono partiti politici e lasciate che vi dica che, in gran parte, qui sta la vostra ricchezza, perché esprimete una forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica».
Il discorso si conclude con l’esame del rischio, per i movimenti, di farsi incasellare e farsi corrompere. E parafrasa Mujica, l’ex-presidente dell’Urugay, presente all’incontro: «Colui che sia affezionato al denaro, alla ricchezza, al potere personale per favore non si metta in un’organizzazione sociale o in un movimento popolare, perché farebbe molto danno a sé stesso, e al prossimo e sporcherebbe la nobile causa che ha intrapreso».
L’invito è all’austerità, morale e umana. E a mettersi al servizio. Un antidoto potente ai narcisismi leaderistici, utile a discernere, si spera, nella selva dei vari populismi.
Fonte: il manifesto
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