Intervista a Colin Crouch di Marco Pacini
«Peggio, oggi è peggio». Forse Colin Crouch non immaginava di giungere a una conclusione così perentoria a soli 13 anni di distanza dal mondo che descriveva in “Postdemocrazia”: un titolo, ma soprattutto una definizione destinata a entrare nel lessico politico in modo stabile. Perché quel mondo, analizzato dal sociologo e politologo inglese nel fortunato saggio del 2003, era già l’esito di un declino; e la sua era la diagnosi di un male oscuro che colpiva i gangli vitali di un sistema che l’Occidente, ma non solo, sembrava aver eretto a paradigma universale e insostituibile dalla seconda metà del Novecento.
Se 13 anni fa Crouch metteva in guardia contro il sorgere di sistemi statali saldamente nelle mani della nuova aristocrazia delle grandi imprese, concludendo che alle élite non serve una dittatura per esercitare il potere, oggi il risorgere dei nazionalismi e l’emergere di leader sempre più “democratori” lo costringono a correggere in senso peggiorativo alcune delle sue analisi-previsioni.
«Il mondo di Hitler potrebbe non essere così lontano», titolava nel marzo scorso The Guardian online un lungo stralcio sulla crisi delle democrazie firmato Timothy Snyder, storico di Yale. E se pur non arriva a tanto, Crouch oggi non fa fatica e evocare con l’Espresso i nomi di Hitler e Mussolini.
«Questi movimenti populisti e nazionalisti - spiega il sociologo - sono una rivolta contro la postdemocrazia che analizzavo. Ma secondo me conducono verso qualcosa di peggio della postdemocrazia. Forse il caso italiano, e mi riferisco al Movimento 5stelle, è ancora parzialmente diverso. Ma quando osserviamo i nuovi movimenti populisti in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, quello che emerge è un conflitto profondo tra ragione ed emozione, un rifiuto del ragionamento. Forse la politica democratica nella postdemocrazia era ancora politica, senza un prevalere delle passioni, delle emozioni; era piuttosto dominata da dati, ragioni economiche, tecnologia. Ma conservava qualcosa di democratico».
In “Postdemocrazia” lei scriveva che “la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve, e a parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Oggi è la rabbia, più che l’apatia, a dominare la scena, con esiti imprevedibili.
«Ciò a cui assistiamo prende la forma di una rivolta delle emozioni. Come avvenne in Europa negli anni 20 e 30 con Mussolini e Hitler. Ripeto: oggi è peggio. Assistiamo a una rivolta contro certi meccanismi postdemocratici che è ancora più postdemocratica. Perché non è il popolo che trionfa, ma certi leader che manipolano le emozioni e le paure del popolo. Non si tratta affatto di una rivolta contro le élite. Trump è un esempio perfetto di questa post-postdemocrazia. La politica delle emozioni che i Trump incarnano segna una svolta ancora più accentuata verso un “dopo” rispetto alla democrazia. E a questo processo partecipa anche l’informazione. Basti pensare a certi media online negli Usa e ad alcuni tabloid britannici che soffiavano sulla rivolta della Brexit attaccando pesantemente il ruolo dei giudici e del parlamento».
Dovremmo parlare allora di psicopolitica più che di politica, come suggerisce qualche filosofo?
«Psicopolitica è un termine pertinente per descrivere i fenomeni in atto. Io sono un sociologo, ma credo che oggi sociologia e psicologia debbano incontrarsi, procedere insieme nell’analisi dei processi politici. Perché il background delle azioni politiche spesso si chiama paura. Nient’altro che paura».
Chiamiamo populismo il vento che soffia sull’Occidente. Uno stesso clima che ci fa assimilare l’elezione di Donald Trump alla Brexit, e ora anche all’esito del voto nel referendum in Italia sulla riforma della Costituzione, benché in questo caso il voto anti-establishment sarebbe stato il Sì, secondo la campagna condotta dall’ex premier anche con toni populisti. Sviste degli analisti e degli osservatori? Semplificazioni?
«In effetti è apparentemente molto paradossale e contraddittorio quello che è accaduto in Italia. Ma al fondo di tutto c’è la parola rivolta. Il caso italiano è più complicato. Quella che veniva presentata come la “sostanza” del referendum pochi l’hanno vista. Ed è normale che in Italia se uno vuole troppo... poi susciti questo tipo di reazione. Ma nell’esito del voto, in generale, c’è dell’altro: dall’antieuropeismo all’immigrazione. È una rivolta del No generica. Accade nel mondo in generale, dalla Scandinavia all’Ungheria, alla Polonia; e ora anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Sembra che ci siano molte persone oggi che si sentono escluse dalla modernità. Non è stato un caso che gli elettori a favore della Brexit fossero in gran parte anziani. Al di là del merito specifico sul quale si chiede agli elettori di pronunciarsi, ciò che sembra prevalere, la vera divisione, è tra rifiuto e accettazione del mondo moderno. E il punto più forte di questa divisione riguarda l’immigrazione. Trump ha usato molto la paura dell’islam benché avesse pochissimo a che fare con i principali temi delle presidenziali. E nel voto sulla Brexit è accaduta la stessa cosa: non è razionale, è emozionale. E dobbiamo chiederci che cosa significa, dove porta. Il ruolo, la paura dell’Islam, fanno sempre parte del dibattito, magari sottotraccia. Ma ogni giorno arriva sempre più in superficie. Dopo il referendum sulla Brexit ho visto nel mio Paese un mutamento profondo, una nuova legittimazione del razzismo fino al moltiplicarsi di attacchi e aggressioni contro le persone di fede islamica».
È la fine del modello, o dell’illusione, multiculturalista?
«Siamo tutti divisi. Nel mondo islamico ci sono molte persone che vogliono vivere pacificamente insieme, che credono che possiamo condividere la cultura, cosa che la razza umana ha fatto da sempre. Per esempio, è fondamentale nella cucina italiana il ruolo del pomodoro, ma il pomodoro non è italiano, viene dall’America. Noi possiamo fare ancora questo con la cultura islamica. Ma ci sono molti altri che vogliono il conflitto. C’è una guerra in atto, ma più che tra Occidente e mondo islamico è una guerra tra chi crede che sia possibile la convivenza e chi no. Le nuove onde populiste non la accettano. Come non accettano il ruolo delle istituzioni delle democrazie. Questi aspetti, insieme, sono l’anticamera delle dittature. In molti Paesi assistiamo all’avanzata di movimenti populisti e alla retorica degli anni 20 e 30. Anche in Russia sta accadendo da tempo... Che accadesse degli Stati Uniti non potevano aspettarcelo. Ora più che mai abbiamo bisogno dell’Unione europea. Oggi che la “testa” americana sta con la Russia... E stanno insieme perché c’è una visione comune profondamente di destra. Questo è un grande cambiamento nel mondo».
Nei suoi lavori successivi a “Postdemocrazia” (“Il Potere dei giganti” e “Quanto capitalismo può sopportare la società”), lei si occupa a fondo delle disuguaglianze crescenti. Come e quanto hanno inciso all’interno delle società occidentali nello sfaldamento delle democrazie. E perché portano a destra?
«Già, è un fenomeno interessante. Finalmente è arrivata una rivolta contro la disuguaglianza... ma prende una forma politica di destra estrema, condita di razzismo. Così oggi abbiamo il confronto tra due opzioni di destra in molti Paesi: la destra neoliberale contro la destra populista e xenofoba. Queste due destre sono nemiche. E con un’idea di democrazia sociale molto debole, in questa fase sono i neoliberali che devono scegliere. Normalmente preferiscono i compromessi con la destra nazionalista.. Ma forse adesso trovano che i loro nemici profondi sono le estreme destre. Perciò solo un compromesso tra la democrazia sociale e i neoliberali potrebbe essere l’argine. Solo coalizioni così potrebbero salvare le democrazie da derive autoritarie».
Se la democrazia finisce, cosa c’è dopo?
«Ci sono molte discussioni sulla democrazia diretta, come evoluzione della democrazia che conosciamo. Ma i referendum dimostrano che quando il popolo ha un’occasione per parlare c’è un potere di interpretare la “voglia” del popolo senza discussione parlamentare, senza filtri. La democrazia è solo un voto e il ruolo delle istituzioni viene quasi cancellato. E questa, ripeto, è la strada verso la dittatura. Perciò la risposta è: dopo la democrazia c’è solo la dittatura».
Fonte: L'Espresso
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