di Vindice Lecis
Uno spettro si aggira per l’Italia. Si chiama referendum della Cgil per ripristinare una manciata di diritti. Per questo i nostri governanti stanno facendo di tutto per fermarlo. Temendo una nuova ondata di reazione popolare. Ciechi e sordi. O solo arroganti. Oppure ancora in cerca di un campo d’atterraggio dopo la scoppola referendaria (anche se in molti stanno facendo finta di nulla). Il Pd è un partito irriformabile. Sia per lo stato liquido o gassoso della sua struttura, sia per l’opacità delle sue strutture di comando al centro e in periferia. Che per le politiche liberiste e filo padronali che esprime. In particolare verso le questioni del lavoro.
La conferma viene da due ministri del governo Gentiloni. L’uno è Poletti l’altro è Martina, rispettivamente titolari del Lavoro (si fa per dire) e dell’Agricoltura. Del primo si è già detto molto: ha insultato gli italiani che sono stati costretti ad andare a lavorare all’estero e, come voce dal sen fuggita, ha ammesso che bisogna impedire il referendum della Cgil contro le devastanti politiche del lavoro. Ma vogliamo parlare del secondo?
Questo ministro Maurizio Martina, al dicastero delle politiche agricole e forestali con Renzi e riconfermato da Gentiloni, era noto per essere un diversamente renziano (il Corriere della Sera lo definisce a sprezzo del pericolo l’anello di congiunzione tra Renzi e un pezzo della minoranza Pd, cioè quella succube all’ex premier), e per aver messo il cappello a uno dei più scintillanti flop del renzismo militante: l’Expo di Milano.
Ebbene in un’intervista al Corriere della Sera del 28 dicembre infila alcune perle a conferma che il governo Gentiloni è un clone perfetto del precedente (e dunque di Confindustria). Parliamo dunque di voucher, quei cosiddetti buoni lavoro che sono una delle caratteristiche dello schiavismo da jobs act che ha trasformato, distruggendolo, il diritto e la qualità del lavoro in Italia. Di questi biglietti per l’inferno, l’ineffabile Martina dice che non solo non vanno demonizzati ma persino estesi. Sentite: “Credo che sia una buona scelta. Studiando i numeri potrebbe essere estesa ad altri comparti” oltre l’agricoltura.
Sul referendum della Cgil per cancellarli, sposa in pieno la linea della Confindustria e del padronato più ottuso. “Sono contrario all’abrogazione totale” scolpisce, anche se il nostro “anello di congiunzione” ammette che sì “hanno rischiato di accentuare in alcuni settori la precarizzazione dei rapporti di lavoro”. Hanno rischiato, dice, al punto che con una giravolta spiega che nell’edilizia ci sono stati abusi.
Non pago il nostro Martina si esibisce nella sua specialità. La banalità servita nel dibattito. Dire una cosa per compiacere il padrone di turno (ora Renzi, domani chissà: e questi vogliono rifare la sinistra!). Arriva la domanda sull’Articolo 18 e l’anello di congiunzione che cosa afferma? “Non credo nel ritorno al passato. Sono convinto che il contratto a tutele crescenti sia la strada giusta”. Dunque la più grave devastazione del lavoro e del diritto è la strada giusta.
Eppure questo ministro della Repubblica dovrebbe avere di fronte i dati. E capire che questi buoni per l’inferno hanno peggiorato persino la precarietà, hanno incentivato uno sfruttamento e una sub qualità dell’occupazione da fare spavento. Tutto a svantaggio dell’occupazione stabile e di qualità. L’emersione dal nero è stato solo una coprtura, polvere negli occhi. Più voucher e meno contratti stabili. Più sgravi alle aziende e meno occupati con meno diritti. Questo il jobs act che il mondo ci invidia (come l’Italicum, del resto).
La vergogna sono quei 110 milioni di voucher venduti che rappresentano il 34% in più dell’anno precedente. Il guadagno medio per la metà degli occupati “occasionali” è stato di 217,50 euro netti (dati Inps). Sta qui la vergogna tutta italiana dei contratti a tutele crescenti: senza lavoro, senza diritti, solo servi.
Ecco perché hanno paura dei referendum della Cgil.
Fonte: fuoripagina.it
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