di Giorgio Mascitelli
Nella nostra società gode di grande popolarità l’idea che cambiare nome alle cose sia un ottimo metodo per risolvere i problemi. Non che questa idea sia del tutto priva di fondamento perché il marketing ci offre una serie di esempi della riuscita di tale operazione, ma quando si passa sul terreno sociale, politico e culturale le sue possibilità di successo appaiono alquanto ridotte. Ne è un interessante esempio l’irresistibile ascesa della parola populismo nel dibattito contemporaneo.
Questo termine, che ormai si applica indiscriminatamente a movimenti e formazioni politiche di sinistra e di destra difficilmente riconducibili a qualche denominatore comune, tende a istruire un’opposizione periferia-centro o anche antisistema-sistema. Lo schema che l’uso di questa parola richiama in forma esplicita o per connotazione, è l’opposizione tra forze antisistema, che fondano la loro crescente popolarità sulla demagogia e su proposte irrealizzabili, e quelle prosistema, che si vedono costrette a prendere misure necessarie ma impopolari e raccontano al pubblico solo l’arido vero. Infondo tale contrapposizione suggerisce, nemmeno troppo implicitamente, che la verità di fondo di questa fase storica coincide con il discorso sulla crisi e sulla società che conducono le grandi istituzioni internazionali del capitalismo e i loro esegeti autorizzati. Si tratta di una classica operazione ideologica nella quale l’ostensione di una parte del fenomeno serva a occultarne altre.
Un esempio eloquente è proprio quello di Donald Trump: rappresentato dalla stampa, compresa autolesionisticamente quella vicina a Hillary Clinton, come un outsider demagogico e politicamente scorretto, rivela progressivamente grazie alle nomine dei membri del suo governo di essere un rappresentante di quel settore finanziario, un po’ emarginato politicamente dopo la crisi del 2007 e la vittoria di Obama, da sempre alla guida della globalizzazione e legato al partito Repubblicano statunitense, cosa del resto ovvia, visto che Trump era il candidato ufficiale di questo partito. Insomma, come scrive Andrea Fumagalli, “L’esito delle elezioni americane non ci può sorprendere e non è un momento di rottura. In un contesto elettorale dove il diritto al voto è fortemente influenzato dal censo e dalla classe sociale di appartenenza non può essere altrimenti. Non è un caso, che la percentuale di voto tra il le classi sociali meno abbienti – il proletariato dei ghetti e delle minoranze etniche (il vero serbatoio della forza lavoro a basso costo, per lo più non bianca, dai McJobs ai lavoratori del terziario arretrato – con redditi e precarietà ben al di sotto della ex-aristocrazia operaia bianca) è stata intorno al 30%.” (http://effimera.org/trump-e-la-finanza/).
Analogamente la Brexit è essenzialmente frutto di un gioco politico tra le varie componenti del partito conservatore, di cui l’UKIP è un epifenomeno. E perfino il tanto stigmatizzato Orban è un membro del partito popolare europeo, che ha potuto godere di qualche appoggio e strizzatina d’occhio presso governi di altre nazioni apparentemente più politicamente corretti.
Anche lo stile comunicativo aggressivo, l’argomentazione demagogica e il culto della personalità, che vengono spesso rimproverati ai loro leader, sono tratti d’ immagine pubblica non troppo distanti da quelli di certi leader democratici moderni e di sistema, come Renzi o Trudeau. E’ lo stile della comunicazione mediatica del nostro tempo, che è tuttora elaborata , anche se la diffusione dei social network ha un po’ parcellizzato e autonomizzato le forme di circolazione, nei tradizionali centri di creazione del linguaggio della società dello spettacolo. Insomma i tempi di Mario e il mago, in cui il grande ipnotizzatore emergeva all’improvviso da dietro le quinte della società a turbare la vita pubblica delle persone per bene, sono finiti e chiunque ha i propri consulenti e scuole di comunicazione di fiducia.
Appare chiaro allora che il populismo, osservato più da vicino, perde i suoi tratti radicalmente antisistemici e al contrario è in stretto contatto con una propensione all’avventurismo politico delle élite neoliberiste, o quanto meno della loro parte più reazionaria. Queste, che hanno costruito il loro successo tramite un’immagine tecnocratica che conferiva certezza che la globalizzazione avrebbe distribuito pace e ricchezza quasi a tutti, man mano che il disordine mondiale emerge e annulla le speranze di cui sopra, cercano di usare queste pulsioni di disperazione e frustrazione, che si organizzano perlopiù spontaneamente, ma non sempre, per mantenere almeno alcune rendite di posizione, se non tutto il potere.
Nel 1935 nelle Lezioni sul fascismo Togliatti scriveva “Anche il totalitarismo è concetto il quale non viene dalla ideologia fascista. Se vedete la prima concezione dei rapporti fra il cittadino e lo Stato, voi riscontrate degli elementi piuttosto di liberalismo anarchico: protesta contro lo Stato che interviene nelle cose private, ecc. Il totalitarismo è invece il riflesso del mutamento avvenuto e del prevalere del capitale finanziario”. L’aspetto interessante di questa citazione non è nel riproporre un paragone tra fascismo e populismo odierno, che non ha senso perché sono troppo diversi i contesti storici, culturali, tecnologici e anche organizzativi, ma nel sottolineare la capacità del capitale finanziario di costruire nuovi ordini sfruttando le dinamiche sociali per fare fronte alle proprie crisi. E’ chiaro che l’urgenza politica del nostro tempo, anziché perdersi negli oziosi esercizi in cui si cerca di dimostrare l’inesistente somiglianza tra Trump e Sanders, è quello di cogliere i fili che collegano i movimenti di destra con il potere finanziario.
Fonte: Nazione Indiana
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