di Bruno Settis
Nelle elezioni dell’8 novembre di quest’anno la contea di Genesee è stata una delle poche del Michigan in cui si è delineata una maggioranza dei democratici (52,4%; un’altra è stata la contea di Wayne, con la città di Detroit), mentre quella a livello statale, di misura (47,6 contro 47,3%) ma con tutti i suoi 18 rappresentanti, andava ai Repubblicani. Non era certo la prima volta che in Michigan si affermava una maggioranza repubblicana (nelle elezioni presidenziali, anzi, ininterrottamente dal 1972 al 1988), ma a questo giro ha attirato l’attenzione come una delle tessere del domino crollato addosso, Stato dopo Stato, a tutte le previsioni ufficiali.
Un domino che, per un tratto decisivo, ha seguito la Rust Belt, ovvero la Factory Belt arrugginita: l’area da New York all’Illinois che costituì la spina dorsale dell’America industriale del xx secolo, fu piegata dalla deindustrializzazione a partire dalla fine degli anni 1960 e si è affacciata sul xxi in eterna crisi di occupazione, demografica e di identità. Crisi che Donald Trump ha cavalcato: i primi tentativi di analisi del suo successo si sono incentrati sul voto di protesta dei bianchi della Rust Belt e sulle rodomontesche promesse del candidato repubblicano di far ripartire il lavoro industriale, contro messicani e automazione.
Flint (dove oggi la maggioranza assoluta della popolazione è nera) è il capoluogo della contea di Genesee e il luogo di fondazione (1908) della General Motors. È una delle città simbolo della parabola di ascesa e declino dell’industria dell’auto e delle città cresciute in simbiosi con essa, fino all’esplosione del disagio sociale (esacerbato dalla crisi dell’acqua, cominciata nel 2014 e ancora in corso, sulla quale si accese un duro scontro tra Hillary Clinton e Bernie Sanders in un dibattito a Flint il 6 marzo). Alla deindustrializzazione e alla delocalizzazione delle fabbriche GM in Messico è dedicato il documentario Roger & Me (1989) di Michael Moore, che a Flint è nato e cresciuto.
Flint è anche un luogo simbolo della storia del movimento operaio americano, e della tutt’altro che armoniosa costruzione del New Deal con le sue fasi alterne, per via dello sciopero che aprì al sindacato le porte dell’industria dell’auto. L’area di Detroit era stato il regno delle politiche antisindacali dell’open shop, che combinavano alti salari e sistemi di controllo e repressione, ma già la recessione del dopoguerra e poi soprattutto la Grande Depressione avevano lasciato spazio solo ai secondi.
Nata nel maggio 1935 sotto l’ombrello dell’American Federation of Labor, ma presto uscitane per costituire il nerbo del Congress of Industrial Organizations, la United Auto Workers Union (UAW) si proponeva di superare la crisi in cui lo sviluppo della mass production prima e la depressione poi avevano precipitato il sindacato. La posta in gioco della UAW era anche il coinvolgimento nell’organizzazione sindacale di quei gruppi di lavoratori, in primo luogo i neri, che erano stati esclusi dalla struttura tradizionale della AFL e che erano rimasti perciò sempre disponibili ad essere utilizzati come strikebreakers (crumiri). Anche negli anni più vicini a noi, del resto, la UAW – che rimane incardinata su Detroit – si è distinta per dei tentativi di innovare la propria struttura, anche espandendosi in nuove categorie lavorative: alla UAW sono affiliati dal 1992 il sindacato degli scrittori e giornalisti freelance e dal 2008 un crescente numero di sindacati che rappresentano i ricercatori post-doc e gli assistenti di ricerca nelle università, pubbliche e private.
Proprio la Grande depressione poteva diventare l’occasione di aprire una breccia nelle roccaforti della mass production, di cui aveva minato le promesse di prosperità e l’onnipotenza politica. Si trattava perciò di affrontare i due giganti dell’industria dell’auto: Ford Motor Company e General Motors. Alla FMC William Reuther, il più celebre dirigente UAW, finì sotto i randelli dei sorveglianti nel 1937. Della GM venne individuato un punto vulnerabile nelle fabbriche produttrici di matrice: solo due per tutti i suoi modelli. A partire dal 30 dicembre 1936, quando giunse la notizia che la Fisher di Cleveland erano andate in sciopero, le officine di Flint vennero bloccate e occupate.
Il sit-down strike, che aveva lo scopo di impedire la ripresa della produzione mediante l’assunzione in massa di strikebreakers (crumiri), era stato sperimentato dagli Industrial Workers of the World a partire dal 1906 ed era già stato messo in pratica altre volte dalla UAW. L’occupazione delle fabbriche di Flint spicca per importanza per vari motivi. Da un lato, per le modalità della sua organizzazione interna, in cui un sistema di rappresentanze, regole e sanzioni (tese soprattutto a mantenere l’integrità degli impianti e l’igiene degli occupanti) si intrecciava con una ricca vita assembleare e conviviale, sorretta dalle reti di solidarietà all’esterno della fabbrica; una vita trainata dall’iniziativa della UAW, ma non del tutto riconducibile alla sua direzione. Dall’altro, per la durezza dei tentativi di sgombero da parte della forza pubblica, che furono respinti, e per il muro eretto dai vertici aziendali, che si rifiutarono a lungo di riconoscere nel sindacato e negli occupanti degli interlocutori (Alfred Sloan disse: «Sarà un’organizzazione sindacale a gestire le fabbriche della General Motors, o potrà continuare a farlo il management?»). In mezzo, per la posizione oscillante ma, a conti fatti, di mediazione assunta dal governo statale e federale: fu Roosevelt ad ottenere che venissero infine aperte le trattative tra i rappresentati della GM e quelli sindacali ma, dato che i primi rifiutavano di trovarsi nella stessa stanza con i secondi, fare la spola tra i due toccò a Frank Murphy, neoeletto governatore democratico del Michigan.
Dopo un mese e mezzo di occupazione, l’11 febbraio 1937 venne raggiunto un accordo in cui, oltre ad un aumento salariale e al permesso di parlare durante la pausa pranzo, veniva sancita la prerogativa per la UAW a contrattare in nome dei suoi iscritti in tutte le fabbriche GM (il cui numero era nel frattempo esploso), anche se solo per i successivi sei mesi. Significava che la contrattazione collettiva entrava per la prima volta nella grande industria automobilistica e consegnava alla UAW un protagonismo politico che avrebbe mantenuto negli anni a seguire, tra New Deal, mobilitazione bellica e dopoguerra. Rispetto alla Ford, la GM di Sloan dimostrava una maggiore plasticità politica e una maggiore sensibilità ai nuovi ordinamenti di rappresentanza e negoziazione dei grandi interessi organizzati. Nel 1950 avrebbe siglato con Walter Reuther il “trattato di Detroit” destinato a stabilire il binario delle relazioni industriali negli anni a venire.
Dopo la chiusura dell’accordo, la situazione nelle fabbriche GM rimase a lungo instabile, con un susseguirsi di arresti del lavoro e proteste, organizzati o meno: aver vinto sulla direzione una volta ispirava a contestarla molte altre, sui sistemi disciplinari, sui controlli della produttività e della produzione, e via dicendo. Il portato di svolta dello sciopero risiede soprattutto nel riconoscimento della contrattazione collettiva e nella legittimazione, davanti al governo e all’industria della mass production, del sindacato come rappresentante degli interessi dei lavoratori. A settant’anni di distanza, ci ricorda che dietro (e dentro, durante e dopo) i grandi compromessi sociali vi sono storie di conflitti, anche feroci, che solo in parte possono essere integrate in una teleologia del New Deal. E di questi conflitti, tra sabotaggi e organizzazione degli interessi, innovazioni e resistenze e repressioni, è ricca la storia del movimento operaio negli Stati Uniti – e, se se ne può ancora parlare, la sua memoria storica.
Fonte: quattrocentoquattro.com
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