di Chiara Martinelli
Il rapporto annuale della Fondazione Migrantes sugli italiani iscritti all’AIRE ha riproposto nel dibattito italiano l’ormai annosa questione dei “cervelli in fuga”, ovvero dell’emigrazione dei lavoratori ad alto capitale umano, che pure in Italia (come è stato già discusso da Gabriele Cappelli su questo focus) sono molto meno presenti che negli altri paesi industrializzati. La ricerca è inevitabilmente destinata a sottovalutare il fenomeno perché solo una parte minoritaria (e non quantificabile in termini percentuali) degli espatriati si iscrive all’AIRE; tuttavia ha il merito di fotografare una realtà in continua ascesa, costituita soprattutto da giovani tra i 25-44 anni che, complice la libera circolazione nell’UE, preferiscono i paesi dell’Unione all’espatrio transoceanico.
A colpire commentatori e lettori, oltre alla ripresa di un fenomeno – quello migratorio – che si riteneva archiviato all’indomani degli anni ’70, è anche la percentuale di laureati che, dopo essersi formati in Italia, cercano e trovano lavoro oltreconfine. Come fotografano i dati ISTAT non solo, infatti, l’emigrazione coinvolge tendenzialmente una platea giovane – il 43% è di età compresa tra i 25 e i 39 anni – e celibe/nubile, ma anche istruita.
A colpire commentatori e lettori, oltre alla ripresa di un fenomeno – quello migratorio – che si riteneva archiviato all’indomani degli anni ’70, è anche la percentuale di laureati che, dopo essersi formati in Italia, cercano e trovano lavoro oltreconfine. Come fotografano i dati ISTAT non solo, infatti, l’emigrazione coinvolge tendenzialmente una platea giovane – il 43% è di età compresa tra i 25 e i 39 anni – e celibe/nubile, ma anche istruita.
Quali le cause? Un interessante articolo apparso nel maggio 2016 su La Repubblica mostra, sulla base di un rapporto pubblicato dall’Eurofund, una persistente e connaturata diffidenza della piccola impresa nostrana verso i laureati: le richieste di assunzione dirette a questi ultimi sono state, infatti, solo il 12,8% del totale. Nelle grandi imprese la loro quota sale al 22,8%: e tuttavia sono soprattutto le prime a muovere il mercato del lavoro nazionale, perché è a loro che bisogna ricondurre il 56% del totale delle assunzioni.
Emigranti perché troppo qualificati: questa sembra la sintesi di un’immagine in controtendenza rispetto alla nostra tradizionale percezione sulla migrazione italiana, quella che coinvolse più di 29 milioni di persone tra 1880 e 1985 e che, sui libri di scuola come nell’immaginario popolare, riguardava illetterati e analfabeti. Che però quest’asserzione non sia del tutto vera, e che in passato, similmente a quanto accade tuttora, l’emigrazione riguardasse anche i lavoratori qualificati, è una constatazione percepibile nelle vicende che coinvolsero i primi licenziati delle scuole professionali italiane.
Le scuole industriali e artistico-industriali, termine con cui erano designati gli antenati degli attuali istituti professionali e istituti d’arte, furono introdotti ufficialmente nel sistema scolastico dal giugno 1907, con la legge proposta dal Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Francesco Cocco-Ortu (R. D. 187 22/03/1907) e che riguardava, oltre quest’ultime, anche le scuole agrarie, commerciali e professionali femminili. Le scuole industriali esistevano tuttavia già da decenni: da quando nel novembre 1878 Benedetto Cairoli, che all’epoca occupava la poltrona di Cocco-Ortu, emanò una circolare, ora pubblicata sul n.2 degli Annali dell’industria e del commercio (1879), in cui prometteva un contributo statale a comuni, province e associazioni che fondassero scuole serali per formare artigiani e capi-officina. Dalla loro introduzione fino al 1908, perciò, le scuole industriali e artistico-industriali godettero di una larga autonomia: le giunte scolastiche, che amministravano ogni singolo istituto, erano libere di stabilire gli anni di corso, le materie da insegnare, il titolo di studio necessario e finanche stipendio e pensione degli insegnanti.
Ne venne fuori perciò un’eterogenea complessità, che rende a volte un po’ fuorviante parlare di “scuole industriali” come di un blocco unico. A tutt’oggi sappiamo quale sia il significato di “istruzione professionale” o “industriale”. Ma il termine era così definito anche nei primi anni di vita del nuovo Regno? In quel periodo l’etichetta di “istruzione industriale”, ancora priva di un collocamento specifico nel panorama formativo europeo, poteva tanto riferirsi a corsi serali con insegnamenti elementari quanto a scuole superiori diurne a cui si accedeva dopo sette anni di istruzione (scuole elementari più tre anni di scuola tecnica, un istituto di cultura generale senza latino alternativo al ginnasio). Era una scuola industriale, ad esempio, quella di Livorno, che nel 1904 richiedeva ai suoi iscritti il completamento della terza elementare. Ma era inclusa nel novero, allo stesso tempo, anche la scuola industriale di Vicenza, i cui corsi potevano essere seguiti solo da chi, dopo le elementari, avesse conseguito la licenza di scuola tecnica.
Proprio per questo, la legge Cocco-Ortu ebbe il merito di introdurre un po’ di ordine nella caotica galassia dell’istruzione industriale, che venne suddivisa in tre rami: le scuole d’arti e mestieri, per chi aveva completato la terza elementare, le scuole industriali, per chi aveva finito le elementari, e gli istituti industriali, a cui si poteva accedere con la licenza tecnica.
Era però unica la convinzione, espressa unanimemente da direttori e professori, che la diffusione dell’istruzione industriale avrebbe contribuito al progresso economico e industriale italiano. Capi-operai e tecnici formati e specializzati, era il leit-motiv, avrebbero innovato la pratica lavorativa industriale e importato tecniche e metodi di produzione all’avanguardia, il cui impianto, come era stato già documentato dall’inchiesta ministeriale sull’Esposizione universale di Londra del 1862, era reso difficile, se non impossibile, dalle scarse conoscenze tecnico-scientifiche di imprenditori e manodopera. L’esempio era la Prussia, che già alla fine degli anni ’60 del XIX secolo aveva raggiunto e superato la produzione inglese in alcuni settori, il siderurgico in primo luogo. Come aveva scritto il Ministro Cairoli nella circolare del novembre 1878, secondo i promotori le scuole industriali avrebbero dovuto formare "[…] operai eletti, e abili capi-operai, sottodirettori di fabbrica, capi di piccoli opifici, e lavoratori per proprio conto, fornendo quegli insegnamenti di scienza e di arte applicata, cui non può in alcuna guisa sopperire la sola pratica dell’industria."
Lo stesso concetto era stato ripreso alcuni dopo da Giuseppe Burbi, direttore della scuola di arti e mestieri di Alessandria nel 1901, nell’opuscolo La scuola d’arti e mestieri di Alessandria: "[…] l’operaio che esce dalla nostra scuola è destinato a portare nelle botteghe e nelle officine quel corredo di cognizioni teoriche, che del mestierante intelligente posson fare un artiere […]: cognizioni che, comunque, procurandogli sempre una maggiore retribuzione, gli renderanno possibile una vita di qualche agiatezza."
Purtroppo non abbiamo un quadro esauriente ed esaustivo degli sbocchi lavorativi di chi, licenza alla mano, cercò lavoro tra fine Ottocento e inizio Novecento. Le inchieste sull’argomento sono scarne e irregolari; poche sono le scuole che conservarono i contatti con gli ex-alunni e che furono capaci di rispondere alle domande che, di volta in volta, il MAIC poneva loro. Per di più altri fattori, potenzialmente devianti, devono essere tenuti in conto: il basso tasso di scolarizzazione e alfabetizzazione e il conseguente innalzamento del costo-opportunità per ogni anno di scuola in più rendevano estremamente esiguo il numero di chi terminava il percorso scolastico. La maggior parte, dopo uno o due anni, si ritirava per cercare lavoro perché già quegli anni aggiuntivi di scuola permettevano loro di pretendere paghe più alte. Le scuole non li includevano quasi mai nei censimenti, ma quest’assenza non nascondeva comunque la consapevolezza – ben presente in insegnanti e direttori – che anche questi school-leavers abbiano tratto vantaggio dagli anni di studio.
Le poche indagini campione e gli accenni al tema mostrano, tuttavia, un quadro poco rispondente alle aspettative di politici e promotori. Guardiamo intanto alle fonti narrative – opuscoli e relazioni, appunto. Che le industrie, diffidenti verso i licenziati dalle scuole industriali, preferissero a questi i giovani formati attraverso il tradizionale canale dell’apprendistato è già sottolineato nel 1879 dal direttore della scuola di Colle Val d’Elsa (Siena) in una relazione pubblicata sul n.10 degli Annali dell’industria e del commercio, nel 1879: "Le […] industrie fondate sul disegno si affidano a chi meno domanda di mercede; e lungi dall’inculcare, dal richiedere la istruzione, temendone una pretesa a maggior retribuzione, si incoraggiano gli ignoranti contendandosi [sic] di produrre cattive copie anziché di creare nuovi oggetti che possano ricordare i tempi più belli dell’arte italiana."
Gli ex-alunni, privi di opportunità lavorative, erano costretti a migrare nei centri maggiori – regionali, come Firenze o Siena, o nazionali, come Milano. L’emigrazione non era tuttavia esaurita solo dalle correnti interne: le relazioni scritte nei primi anni del XX secolo riportano – come a Cesena – di ex-studenti che, non assunti dalle imprese italiane, avevano cercato e trovato lavoro a Parigi; oppure di licenziati “derisi” perché reputati decisamente sovra qualificati dalle piccole officine del luogo, come scriveva il direttore del pur prestigioso istituto industriale fondato dall’imprenditore tessile Alessandro Rossi nel 1875 a Vicenza.
Seppur cogenti e confermati da altri resoconti, le sole testimonianze degli opuscoli non possono essere l’unica fonte su cui dimostrare quanto l’esportazione di lavoratori qualificati, piuttosto che una caratteristica specifica delle migrazioni contemporanee, sia stato un processo già manifestatosi negli anni dell’Italia liberale. Dati come quelli desumibili dalle inchieste possono, a questo proposito, risultarci di grande aiuto nell’illuminare un fenomeno difficilmente conosciuto e conoscibile.
Proprio su questo punto le informazioni latitano. Quale la causa? Non il MAIC, che in più occasioni, durante quasi tutte le sue inchieste sullo stato dell’istruzione industriale, cercò di chiedere alle segreterie scolastiche chiarimenti sul tema. D’altro canto proprio la tendenza dei licenziati, una volta terminato il percorso scolastico, ad abbandonare la città d’origine, rendeva il loro percorso estremamente difficile da tracciare per le segreterie, costrette spesso ad ammettere al Ministero la loro impotenza. Nessun dato sul collocamento dei licenziati, nonostante i tentativi di Roma, appare così nei volumi ufficiali. Abbiamo però i dati che alcuni istituti, facendo seguito a una delle prime richieste centrali, inviarono nel 1882 e che il Ministero, ritenendo il numero delle risposte troppo esiguo, conservò nel suo Archivio (ora nell’Archivio centrale di Stato con il nome di Fondo MAIC) senza pubblicarli. A rispondere erano state le scuole di Foggia, Fossano (Cuneo), Roma, Biella, Colle Val d’Elsa (Siena), Padova, Luino (Varese), Murano, Seravezza (Lucca), Soncino (Cremona), Terni, Bari, Monza e Aversa. Il loro numero – 16 sugli 82 allora esistenti – non è certo esaustivo; ma rimane comunque, in assenza di altre risorse, abbastanza esauriente per poter approfondire la questione. Nel complesso, i documenti ricostruiscono la carriera di 744 studenti licenziatisi tra il 1868 e il 1881.
Se guardiamo i dati complessivi, riportati in tabella, possiamo notare che l’emigrazione interessava una parte cospicua dei licenziati. Questa constatazione vale anche se contestualizziamo i dati a nostra disposizione e se teniamo conto sia che la scarsa diffusione di questo tipo di scuole attirava in quelle più prestigiose (come gli istituti di Biella, Fermo e Vicenza) iscrizioni da tutta Italia, sia che la tendenza di imprese nazionali ed estere tendevano ad assumerne i licenziati come dirigenti aumentava gli spostamenti degli ex-studenti. In questi casi però la mobilità non era un’imposizione dovuta alle scarse possibilità lavorative, ma una libera scelta di un segmento sociale che già aspirava all’internazionalità. Erano però pochi gli istituti che godevano di questa situazione particolare – e solo uno, la scuola tessile di Biella, inviò i propri dati al MAIC.
Pur con questi distinguo, le risposte al questionario ministeriale rivelano una mobilità elevata. Il 17% dei licenziati trovava lavoro fuori dalla provincia dove avevano studiato; il 3,76% invece oltrepassava i confini nazionali, lo stesso numero di chi cercava un impiego fuori regione. Non è una percentuale contenuta: nel 1882, quando dunque il fenomeno migratorio era già sostenuto, gli espatriati erano lo 0,477% della popolazione del Regno (calcoli dall’Annuario Statistico Italiano del 1884). Certo, il paragone deve essere interpretato con le dovute cautele: da una parte abbiamo i licenziati dalle scuole professionali, tutti uomini e appartenenti a una tra le fasce d’età (tra i 18 e i 21 anni) più disponibile a migrare; dall’altra i dati aggregati sulla popolazione, che comprendono anche gli anziani, meno inclini a trasferirsi. Comunque si consideri la questione, resta il fatto che la percentuale dei licenziati che migrano è 7,88 volte più alta di quella nazionale: un dato davvero elevato, il cui significato non può essere ricondotto solo alla diversa natura del campione analizzato. Al conseguimento della licenza industriale o artistico-industriale corrispondeva dunque una maggior mobilità verso l’estero.
Il quadro aggregato nasconde tuttavia profondi differenze da scuola a scuola. Anche prescindendo dalla situazione particolare di cui godeva la scuola di Biella, fondata da Quintino Sella e assurta in pochi anni al ruolo di centro formativo per gli industriali tessili italiani ed europei, altri istituti industriali, legati al territorio e che alle sue esigenze economiche cercavano di rispondere, sono caratterizzati dalla migrazione di parte dei licenziati. Migravano all’estero, ad esempio, il 4,55% dei licenziati della scuola industriale di Monza, il 16,2% della scuola professionale di Bari e l’11,1% di quella di disegno industriale a Seravezza (Lucca).
Anche nell’Italia liberale, dunque, e nonostante la comune immagine dell’immigrato analfabeta che solcava i mari o valicava le catene montuose, le vicende delle scuole industriali e artistico-industriali mostrano che studiare e qualificarsi non garantiva l’impiego entro i confini nazionali, anzi; piuttosto, proprio le diffidenze nutrite dalle (piccole) imprese aumentava la loro mobilità. Lontani perciò dall’essere una peculiarità contemporanea, il rapporto problematico tra piccole imprese e lavoratori ad alto capitale umano, da un lato, e l’esportazione di manodopera qualificata e avanzata, dall’altro, assumono le dimensioni di un processo strutturale, che già qualificava la storia italiana tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Consigli di lettura: Il saggio di Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1913), (Bologna, Mulino, 1974) nonostante gli anni trascorsi dalla sua pubblicazione rimane imprescindibile per comprendere la lunga storia nazionale del sottoutilizzo di capitale umano specializzato. Esistono pochi saggi sull’istruzione professionale italiana: quello di Maurilia Morcaldi (Milano, FrancoAngeli, 2002), che si focalizza sulla seconda metà del XIX secolo, ha il merito di evidenziare le influenze belghe e francesi sulla formazione del sistema nostrano. Un inquadramento generale ed europeo è invece tracciato in P. Gonon ed E. Berner, History of VET [Vocational Education and Training]: Case and Concepts, Lang, 2016. Sull’emigrazione, il rimando è all’opera di P. Bevilacqua et alii (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Roma-Bari, Laterza, 2001, e Arrivi, Roma-Bari, Laterza, 2002: per scrivere questo contributo ho guardato soprattutto i saggi di M. Sanfilippo, Tipologia dell’emigrazione di massa (nel volume I) e P. Audenino, Mestieri e professioni degli emigranti (nel volume II).
Fonte: quattrocentoquattro.com
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