di Fabrizio Tonello
Il 7 novembre 1972 Richard Nixon veniva facilmente rieletto, raccogliendo oltre il 60% dei voti popolari. Nel collegio elettorale ottenne 520 voti, battendo tutti i record. Appena ventuno mesi dopo, il 9 agosto 1974, si dimetteva, travolto dal caso Watergate, iniziato mesi prima per lo spionaggio a danno del partito democratico. Nel momento del trionfo, la sua presidenza era già morta. Succederà lo stesso anche a Donald Trump? Il dubbio nasce dal fatto che, come 45 anni fa, troviamo sulla scena un presidente repubblicano che ha un grande consenso popolare ma infastidisce molti attori politici a Washington.
LA LISTA È LUNGA ma, per brevità, diremo che si tratta dell’establishment della Guerra Permanente. Non è, ovviamente, un gruppo omogeneo, e al suo interno molti sono ben contenti di collaborare con il presidente eletto.
Però in quella che Trump ha definito la «palude» della capitale nuotano parecchi coccodrilli che sono in grado di azzannare i neofiti prima ancora che questi abbiano messo un piede in acqua.
L’establishment bellicoso ha quattro componenti: i produttori di armi, i giornalisti, i parlamentari, gli apparati di spionaggio. Trump è riuscito a inimicarsi tutti prima di entrare in carica.
Cominciamo da quelli che collaboreranno: l’industria militare difende le proprie commesse, quindi se il neopresidente garantisce di non diminuire le spese per la difesa tutto andrà bene. Trump, però, ha già lanciato qualche tweet velenoso contro la Lockheed, per il costo degli F-35, quindi anche in quel settore l’entusiasmo potrebbe essere di breve durata.
I GIORNALISTI SONO istituzionalmente propensi alla collaborazione, tranne gli irriducibili del New York Times, ma sono anche assetati di vendetta per come sono stati attaccati e sbeffeggiati da Trump nel 2016. Se poi compaiono sul piatto storie di sesso come quelle che circolano in queste ore, con tanto di prostitute arruolate dagli scherani di Putin, tutti i cronisti di Washington si sentiranno dei paladini della verità e della trasparenza e non molleranno facilmente la presa.
Il Congresso a maggioranza repubblicana è fin troppo entusiasta di poter seguire Trump nel cancellare anche il ricordo di Obama, quindi sulla carta farà di tutto per difenderlo.
IN SENATO, PERÒ, ci sono almeno una decina di senatori che hanno pochissima simpatia per Putin e hanno passato la loro intera carriera politica a sostenere la Nato: per loro la guerra fredda è quasi una ragione di vita. Inoltre, parecchi sono stati personalmente insultati dal neopresidente e non dimenticano facilmente: se avranno occasione di pareggiare i conti con Trump lo faranno.
INFINE, IL PEZZO PIÙ importante: Cia, Fbi, Nsa, lo spionaggio interno ed esterno. Trump ha già annunciato che metterà dei suoi uomini a capo di queste agenzie ma ci vuole altro per controllare apparati che hanno decine di anni di storia istituzionale e decine di miliardi di dollari di budget.
LA LORO MISSIONE È raccogliere informazioni e a Washington l’unica valuta corrente sono appunto le informazioni. Quelle «segrete» arrivano sui tavoli delle redazioni in circa mezza giornata, quindi possiamo aspettarci una quotidiana dose di rivelazioni più o meno succose.
GLI SCANDALI A VOLTE sono politicamente mortali, a volte no. Watergate fu fatale per Nixon perché istituzioni importanti come la Corte suprema e la stampa indipendente gli erano ostili. Ma dietro i giornalisti del Washington Post c’era, è bene ricordarlo, l’Fbi, il cui vicedirettore Mark Felt rivelò solo prima di morire di essere lui la celebre «Gola profonda», che fece da fonte ai giornalisti. E c’erano molti senatori che non vedevano di buon occhio la distensione con Mosca e il disarmo nucleare avviati da Nixon nel maggio del 1972. Il partito repubblicano ovviamente lo sosteneva, ma la lealtà dei parlamentari americani verso il presidente dura finché conviene.
NATURALMENTE TRUMP ha molte armi che Nixon non aveva, a cominciare dal suo stile di comunicazione via Twitter, spiazzante e di grande successo. E il potere procura molti amici, anche tra quelli che ha insultato fino a ieri.
Ma se le rivelazioni sui rapporti con Putin non gli impediranno di entrare alla Casa Bianca fra otto giorni, è plausibile che siano sufficienti per far nascere un po’ zoppa la sua presidenza.
Fonte: Il manifesto
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