di Paolo Bagnoli
Il risultato del referendum che ha salvato la Costituzione ci riporta alla mente quanto Pietro Nenni disse in occasione del referendum sul divorzio del 1974: «Si sono voluti contare e hanno perso». Il paese non solo ha gridato un no netto, ma ha anche fatto sapere che di Matteo Renzi non ne vuole sapere. Come sempre accade in un referendum, il voto, comunque ci si collochi, racchiude tanto altro al di là dello specifico in oggetto, e per argomentare un giudizio politico d’insieme bisogna considerare il dato unificante. Così il voto del 4 dicembre è, secondo me, molto semplice da interpretare: non si può “imbastardire” la Costituzione con le questioni del governo; non si può confondere quanto è a fondamento di un paese con quanto è contingente.
Su ciò il giudizio del popolo italiano è stato praticamente omogeneo: la Costituzione vale molto di più della classe politica che è al governo e non la si può barattare con una “frittura di pesce”.
Su ciò il giudizio del popolo italiano è stato praticamente omogeneo: la Costituzione vale molto di più della classe politica che è al governo e non la si può barattare con una “frittura di pesce”.
Subito dopo il risultato, le interpretazioni di merito sono state le più varie. L’unica cosa che non abbiamo né letto né sentito è stato quello che, in effetti, era il nocciolo vero della questione: passare da un sistema di democrazia repubblicana a uno di potere autoritario. Se ciò fosse avvenuto, i rischi per la Repubblica e la sua legittimità democratica sarebbero stati gravissimi anche perché il nuovo sistema era stato concepito su due fondamenti: annullamento della centralità parlamentare con conseguente ruolo caudillistico del presidente del Consiglio e legge elettorale che avrebbe permesso al Pd – hoc erat in votis– di divenire il centro di legittimità e di governo dell’intero sistema. Se questo fosse avvenuto, le radici della Repubblica, nata dalla Resistenza, sarebbero state cancellate e la stessa prima parte della Costituzione avrebbe figurato, rispetto al tutto, come le guardie del Pantheon, che non fa alcuna differenza che ci siano o non ci siano.
Siamo consapevoli di cantare fuori dal coro. Il richiamo alla Resistenza, e cioè all’antifascismo, non è un sospiro struggente della nostalgia, ma un dato della storia e della politica democratica che ha dato vita alla Repubblica e alla Costituzione. Qui il discorso si fa complesso. Ogni paese è il frutto della sua storia e se dimentica il proprio passato si sbanda. Ecco perché, a meno che non si produca un cambio di sistema, si sta molto attenti a mettere le mani nelle Carte costituzionali. La storia, coi suoi valori, che non sono storici ma politici, risiede naturalmente nel passato, ma il presente non nasce dal nulla ma da un complesso di idee, moralità, atti e vicende che concorrono in modo determinante a delinearne il profilo, il suo ancoraggio, la sua identità. Un esempio probante ci viene dalla Francia che ha cambiato più volte sistema statuale e norme costituzionali, ma, dal 1789, in ogni costituzione ha messo in testa il richiamo ai principi della Rivoluzione. Prescindendo da ciò, infatti, si annullerebbe l’identità della Francia, un paese nel quale sia la destra che la sinistra si richiamano entrambe all’esprit républicain.
Il nostro esprit sta nell’antifascismo. L’antifascismo segna la nostra democrazia ed è una risposta di civiltà alla barbarie. Da quando la prima Repubblica è franata, portando con sé progressivamente i valori fondanti e le identità repubblicane che le forze politiche rappresentavano, si è perso anche il senso delle radici. Così, più che ricostruire i valori della politica, si è proposto un cambio di sistema tramite un processo snodatosi tra il nascere e il morire di nuove sigle partitiche con la ricerca di sistemi elettorali che conseguissero l’obiettivo voluto dalla parte in quel momento preminente. Il tutto, naturalmente, è stato contrabbandato come rinnovamento, modernizzazione, anti-ideologia, adeguamento allo standard europeo (ma nessuno ci ha mai spiegato di quale Europa si parli), lotta alla casta, abbattimento dei costi della politica, e si potrebbe continuare. Si è finito per scaricare sulla Costituzione tutti questi problemi, ma il paese, che versa in condizioni economiche e sociali assai critiche, che non sembra avere più speranza nel futuro, oberato da un’imposizione fiscale pesantissima, attanagliato dalle ingiustizie e dalla corruzione, ha detto no. La giustificazione nobile del sì era che occorreva una nuova costituzione per le giovani generazioni, ma proprio queste si sono opposte. È questo un motivo su cui fare una riflessione seria, cui guardare con qualche speranza. La filosofia della rottamazione è stata rigettata dai giovani ma a essi va data una risposta.
Con la vittoria del no la Repubblica ha salvato le proprie fondamenta, ma la crisi è ben lungi dall’essere risolta. Inoltre il dibattito che si è aperto dopo i risultati si è incanalato su binari sbagliati. Infatti che il 40% raggiunto dal sì costituisca il consenso elettorale del Pd, è solo un’idea di Renzi e dei suoi “pretoriani” perché in quella percentuale sono confluiti voti provenienti da forze che mai voterebbero il Pd. E tuttavia ciò che è avvenuto a seguito del risultato referendario ha dell’incredibile. A un paese che per il 60% ha rigettato il progetto di riforma costituzionale del governo Renzi si è risposto per assurdo con un governo del sì. Il ministero Gentiloni, infatti, per il contesto nel quale è nato e per come è formato, equivale al cappello che il presidente cacciato dal popolo italiano ha lasciato sulla sedia per tenerla occupata, nella speranza di riprenderne possesso. Diciamo la verità: è una vergogna. L’altra verità è che le preoccupazioni per la sorte del Pd hanno avuto la meglio su quanto il paese ha richiesto. Il risultato del referendum, infatti, ha indicato al paese la via di una ripresa di coraggio nelle capacità della democrazia repubblicana, ma questa via non è certo battuta da un governo che è stato collocato nella sala di attesa della politica ufficiale.
Il significato del voto è stato chiaro e ci saremmo aspettati che il presidente della Repubblica lo cogliesse nella sua essenza. Ci ha regalato invece un pasticcio che non è una risposta, senza porre in essere un tentativo serio di nuovo inizio con la formazione di un governo istituzionale, di responsabilità repubblicana, che, archiviando la lunghissima e sfibrante decoazione della nostra vita pubblica, ricollochi la politica dentro un processo ricostruttivo della democrazia italiana. Il paese lo ha chiesto, ma si è detto no in salsa democristiana; un no paludato da esigenze e necessità fittizie che aggiungeranno negatività al già tanto negativo accomulatosi in poco più di due decenni.
Le questioni particolari del Pd sono state anteposte a quelle dell’interesse generale. Il presidente Mattarella ci sembra averle assecondate. Forse, anche al Pd ha detto quanto va ripetendo nelle periodiche visite ai terremotati: «non vi lasceremo soli, ricostruiremo tutto».
Il presidente “cacciato”, dopo la sceneggiata, invero pietosa e macchiettistica, dell’addio, continua a muoversi per riprendersi il governo e con esso il paese. Lo strumento dovrebbe essere sia una resa dei conti plebiscitaria, da giocarsi nel prossimo congresso, sia una legge elettorale che il Pd cercherà di ritagliare, come peraltro per l’Italicum, sulle sue esigenze. La vocazione maggioritaria continua e il “luogo” principe della democrazia, cioè il parlamento, sarà ulteriormente indebolito.
Gentiloni si è presentato in parlamento con larghi vuoti che, piaccia o non piaccia, lacerano la funzione stessa di legittimità delle Camere. È anche sorprendente, inoltre, che, nei suoi interventi Gentiloni abbia fatto praticamente finta di niente, intessendo discorsi lunari. Perfino la parvenza della dignità istituzionale è parsa latitare: le intenzioni programmatiche si sono limitate a richiamare la priorità del lavoro e la condizione del Sud.
Il lavoro, già, dal momento che i voucher hanno creato ancor più precariato. Incombono poi i tre referendum proposti dalla Cgil e sottoscritti da tre milioni di cittadini. Puntano a cancellare la modifica dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, vale a dire la possibilità di licenziamento; ad abrogare le disponibilità che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante in caso di violazioni a danno del lavoratore e, infine, a cancellare i richiamati voucher, ossia i buoni-lavoro per il pagamento delle prestazioni accessorie. Il Jobs act è a rischio smantellamento anche se era stato presentato come un fiore all’occhiello del precedente governo. Si può immaginare la situazione se, dopo la bocciatura della nuova costituzione, la Consulta dichiarasse ammissibili le proposte di referendum e decidesse di farli votare in primavera. Per il Pd dalla sconfitta si potrebbe passare alla disfatta.
Così, anche per scongiurare il rischioso appuntamento, Renzi vorrebbe che si votasse tra quattro o cinque mesi. Tornato a casa ha dichiarato: «Nessuno ricorda cosa abbiamo fatto in mille giorni, robe mai fatte in dieci anni». Affermazioni buttate là, ma è vero che quello che ha fatto lui nessuno aveva mai tentato di fare non solo in dieci anni, ma nemmeno in oltre mezzo secolo: stravolgere la Costituzione e pensare in contemporanea una legge elettorale a sostegno del suo disegno di divenire egli il dominusdella politica. La vittoria del no ha stravolto i suoi disegni. Ora occorrerebbe che da questo no derivasse una forza “nuova”, mi piacerebbe che questa fosse una forza “socialista”, ma di tutto ciò all’orizzonte non si vede nemmeno l’ombra.
Fonte: Il Ponte
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