di Federico Chicchi
Difficile davvero scrivere qualcosa di originale sul sociologo polacco appena scomparso. Tutti i media sembrano presi dalla smania di dirne qualcosa, di celebrarne la sorprendente capacità intuitiva, l’umanità, il coraggio di continuare a portare i panni della trincea intellettuale fino all’ultimo dei suoi giorni. Forse sarebbe meglio lasciarlo scorrere questo fiume in piena e provare a imbastire più tardi un ragionamento a freddo, o meglio ancora, organizzare un campo plurale di riflessioni sulle sue numerose e molto variegate opere. Ma l’urgenza che determina un lutto deve essere ospitata, non può essere evasa e rimossa in un cassetto di carte. Il modo migliore per iniziare ad elaborare un lutto è però quello di non truccarlo con inutili e barocche nostalgie.
Bauman ci mancherà, senza ombra di dubbio. Ci mancherà come colui che testardamente voleva rivendicare per la sociologia una postura critica e scomoda, ma anche e soprattutto schietta nella denuncia delle miserie umane cui il capitalismo ci costringe. Ci mancherà il sociologo di formazione marxista, studioso di Gramsci e nemico inflessibile di ogni determinismo metodologico e ideologico, prima ancora ci mancherà il Bauman, costretto a riparare in Unione Sovietica per sfuggire alle persecuzioni naziste. Il Bauman soldato in guerra contro ogni fascismo, e il Bauman vicino alle storie degli operai polacchi. Il Bauman con il suo umanesimo ingenuo, e il Bauman anziano e preoccupato esteta della postmodernità. Ci mancherà soprattutto Il Bauman difensore appassionato dei migranti e delle vite di scarto. Ci mancherà certo, ma occorre oggi saperne raccogliere con responsabilità militante l’eredità e portarla avanti, al di là dei festival e delle riviste patinate e dei salotti dove la sua liquidità era diventata un aperitivo analcolico. Questa è la miglior cosa che possiamo fare della sua preziosa memoria sociologica e intellettuale. È evidente infatti che della sua opera, soprattutto quella della sociologia teorica postmodernista e postmarxista se ne è fatto e se ne fa un uso troppo spavaldo, superficiale e oserei dire consumistico (anche e soprattutto nelle Accademie), che ricorda, di riflesso, il modo con cui secondo lo stesso Bauman il soggetto postmoderno si definisce (o meglio tentava di farlo, per lo più con insuccesso) dopo il tramonto del lavoro salariato e delle sue convenzioni collettive di solidarietà sociale. La società dei consumatori ha finito per consumare anche le sue opere, stampate ipertroficamente in svariate edizioni e da svariati editori nei più diversi formati, con le più inaspettate copertine. Sì, Warhol oggi nel suo quadro potrebbe metterci il volto di Bauman oltre a quella di Marylin. Ma proprio per questo non dobbiamo rinunciare a trovare e a far detonare negli argomenti degli ultimi lavori del sociologo polacco, la loro intensa tensione etica e scientifica. Questi saggi (di cui è inutile citarne i titoli per quanto sono noti al grande pubblico) sono stati in grado di mostrare con estrema semplicità e chiarezza e a un numero davvero grande di persone le mostruosità del sistema capitalistico contemporaneo. E questo è un merito davvero da non sottovalutare.
I primi lavori di Bauman, certamente più impegnativi, analitici e densi sul piano teorico, già contengono in nuce le sue principali linee di ricerca, le stesse che nutriranno fino alla sua morte la sua incredibile serendipity sociologica. In tal senso alcuni articoli pubblicati in questi ultimi anni dal quotidiano inglese The Guardian ne portano tutta la potenza immaginifica e di analisi. Nel suo primo articolo importante, uscito in inglese per una rivista polacca di sociologia nel 1967, intitolato “Image of Man in the Modern Sociology”, ad esempio, il tema della penetrazione delle logiche di mercato nel cuore delle azioni umane è già presente e denunciata con vigore da Bauman. La sua linea di ricerca più importante è credo rimasta quella attorno alla questione della mercificazione del mondo e della vita da parte del capitalismo. Bauman accompagna questa sua tesi fondamentale a quello che aveva definito, facendo il verso a Freud, il disagio della postmodernità. Tale disagio descrive un eccesso di libertà (fittizia), il farsi di un processo di progressiva erosione delle comunità simboliche del moderno, che lascia il campo a una società individualizzata, di uomini solitari e idioti perché ora incapaci di riconoscere il volto dell’altro, incapaci di opporre resistenze significative al potere distruttivo (ma ora anche seduttivo) del legame sociale da parte del mercato. Si annida qui la grandezza del sociologo di Poznan, l’avere intuito tra i primi che la modernità come grande progetto ideologico e razionalizzatore stava lasciando strada a un nuovo corso, a un nuovo modello capitalistico di sfruttamento, in cui il mercato e i suoi dispositivi di contabilità stavano trasfigurando la norma sociale e la stavano iscrivendo dentro uno scenario in cui il grande problema non era più l’imperio e la competenza paternalistica del giardiniere che si prende cura delle piante, dei viventi del giardino – come ebbe a scrivere lo stesso Bauman – “così da farli crescere in un modo conforme all'ordine che è loro imposto, anziché in modo sregolato” ma piuttosto la continua sollecitazione del soggetto ad assumere la prestazione e l’impresa come modelli imprescindibili di soggettivazione. Gli anni della crisi del fordismo e della globalizzazione segnano infatti così profondamente la vita sociale dell’Occidente da iscriverla all’interno di un corso di de-istituzione progressiva del moderno che Bauman ci ha descritto in maniera davvero magistrale.
Come spesso accade i limiti e i pregi di un pensiero si toccano e si confondono. È appunto l’ambivalenza che emerge dal lavoro di Bauman. Al confine estremo della modernità si profila uno scenario in cui la libertà del soggetto è posta paradossalmente come nuovo fardello dei processi identitari, ora sì aperti e contingenti ma al contempo liquefatti nella precarietà e senza più alcuna gravità sociale, se non quella effimera e sfuggente del mercato e della gratificazione immediata che il consumo non smette di promettere. Il limite della sociologia di Bauman è, infatti, forse, stato quello di un eccessivo attaccamento culturale a un umanesimo destinato a non trovare slancio politico perché ripiegato su di una visione retroflessa della vita sociale e soggettiva disalienata che non potrà mai essere recuperata in quanto non è mai esistita. In un certo senso la politica (quella emancipativa dell’umano) è per lui vincolata al riconoscimento di una autenticità che si può costruire solo in una ricerca etica della verità basata sulla relazione con l’altro. Il problema, ci viene da dire, è che questo altro è tutto da costruire e da av-venire e non può essere ritrovato “scavando” più a fondo. Il titolo del suo ultimo libro “Retrotopia” rende sintomaticamente conto di questa sua visione. Retrotopia descrive infatti l’idea che le nuove generazioni, intrappolate nella crisi del capitalismo neoliberale, siano impossibilitate a guardare al futuro in modo positivo e preferiscano, per questa ragione, rivolgere lo sguardo al passato nella speranza di ritrovare lì le tracce di un mondo nuovo. Su questo credo e sono convinto sia utile pensare che Bauman si sbagliasse. Good bye Mr. Bauman.
Fonte: commonware.org
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