di Piero Bevilacqua
Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa – salvo qualche eccezione – i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Che verranno sottratte allo studio per esperienze pratiche nelle fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc
Processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una erronea lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo. Da noi è universale la vulgata secondo cui la scuola italiana «è lontana dalla società» Dove naturalmente la società coincide col mondo delle imprese e col mercato del lavoro. La complessità del mondo reale si riduce alle esigenze presenti del capitale. Sicché a stabilire un nesso tra la scarsa preparazione al lavoro degli studenti e la disoccupazione giovanile a livelli record diventa fin troppo facile. L’articolo 33 della legge sulla Buona scuola, dichiara solennemente che l’alternanza scuola-lavoro viene attuata «al fine di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti». La scuola, tutti gli istituti superiori, devono e acquistare competenze per il lavoro. Sarà questa loro esperienza sul campo a favorire lo sviluppo dell’occupazione.
Com’è noto, la disoccupazione italiana non dipende certo dalla scarsa preparazione dei nostri giovani. La disoccupazione è figlia di alcuni caratteri strutturali del capitalismo del nostro tempo ormai noti. Ma oggi anche l’innovazione è agente crescente di disoccupazione. Il problema agita i sonni della Banca mondiale e perfino l’Onu ha lanciato un grido d’allarme. (E.Marro, Il Sole 24 0re, 18.11.2016).
L’innovazione elimina e minaccia non solo lavori automatizzabili, ma nuovi settori e funzioni: dalla burocrazia alle professioni legali, dal commercio ai servizi finanziari, dalla formazione alla medicina. Una ricerca del 2013 di due economisti del Mit, E. Brynjolfsson e A. Mc Afee ha mostrato come a partire dal 2000 le linee della crescita della produttività e quella dell’occupazione si sono divaricate. Dopo un decennio, questo fenomeno appariva come «il grande paradosso della nostra epoca». «La produttività è a livelli record, l’innovazione non è mai stata più veloce, e tuttavia, allo stesso tempo, noi abbiamo la caduta del reddito mediano e abbiamo meno posti di lavoro» (D. Rotman, «How Technology is destroying Jobs», Mit Technology Review, giugno 2013)
Dunque piegare la formazione delle nuove generazioni ai bisogni del lavoro che muta di giorno in giorno è pura insensatezza. Occorre è una formazione culturale non piegata ad alcun specialismo, aperta e complessa, una educazione della mente che sappia affrontare con strumenti critici uno mondo sempre più velocemente mutevole. Che non è solo il mondo delle imprese e del lavoro.
Secondo alcuni osservatori occorre fornire ai ragazzi «l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni». (A. Rosina, Repubblica, 3 dicembre 2016). Dunque tutti imprenditori? Alla fine tutte le istituzioni della formazione si devono piegare ad uno scopo unico: creare degli individui efficienti sul piano delle attività produttive e di gestione d’impresa.
È importante osservare come la nozione di innovazione sia oggi interamente assorbita nell’ambito della tecnica e nella sfera dell’economia. Ma nessuno osserva la divaricazione che lacera la nostra epoca: mentre l’innovazione avanza vorticosa nel mondo della produzione e dei servizi essa non muove nessun passo nell’ambito dell’organizzazione sociale. Le nostre società poggiano su economie del XXI secolo ma la vita delle persone si muove entro quadri organizzativi che appartengono al XX secolo e tendono a indietreggiare verso il XIX.
Mentre le ristrutturazioni organizzative, la digitalizzazione, i robot sostituiscono masse crescenti di lavoratori da attività produttive e servizi, la giornata lavorativa resta quella del secolo passato, la distribuzione del reddito è sempre più disuguale, la disoccupazione endemica, i servizi sempre più costosi e inaccessibili. Mentre c’è sempre meno bisogno di lavoro, anziché progettare una società più libera, che si dia nuovi fini, che corrisponda a questo obiettivo processo di liberazione da bisogni e fatiche, si tenta di piegare l’intero processo della formazione delle nuove generazioni agli imperativi di una più efficiente produzione.
Naturalmente che gli studenti dei licei abbiano contatto con l’ambiente delle imprese può essere utile alla loro formazione. Ma il rapporto con tale ambito non deve essere finalizzato all’avviamento al lavoro, quanto a un arricchimento della loro formazione. È utile che i giovani osservino da vicino chi sono le donne e gli uomini che tutti i giorni, con la loro fatica, attenzione, intelligenza, abilità assicurano la produzione della ricchezza del nostro Paese. È utile che osservino la potenza tecnologica cui è pervenuta l’attuale industria manifatturiera, frutto dell’umano ingegno, ma che vedano anche quanto fatica costa agli operai servirla, dalla mattina alla sera, con costante e usurante attenzione.
Non meno utile alla formazione può essere la frequentazione delle aziende agricole per sperimentare un approccio rivoluzionario alle scienze naturali. È sufficiente partire da un pugno di terra, una manciata di suolo agricolo (geologia, chimica, biologia dei microrganismi…).
È di questo sapere che oggi abbiamo bisogno: una visione più complessa del mondo reale, per avviare un rapporto di cura con la natura, dopo secoli di dissennato saccheggio.
Fonte: Il manifesto
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